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 2010  agosto 18 Mercoledì calendario

TROPPO NEMICO DELL’URSS COSÌ IL NOBEL PER LA PACE NON ANDÒ MAI A PIO XII

Al termine della Seconda guerra mondiale la diplomazia staliniana guarda con occhi sempre meno disinteressati al premio Nobel per la pace. Attribuito alla Croce Rossa nel 1944 e all’ex segretario di Stato americano Cordell Hull per il suo impegno nella nascita dell’Onu, il premio entra negli obiettivi dei sovietici, che nel 1946 lanciano un’offensiva diplomatica per candidare Aleksandra Kollontaj. Rappresentante dell’Urss a Oslo negli anni Venti e poi ambasciatrice dal 1939 al 1945, la Kollontaj era stata attiva fautrice dell’avvicinamento russo-norvegese e — riferisce a Mosca il suo successore Nikolaj D. Kuznetsov — il suo nome è sostenuto da deputati finnici e scandinavi, dai socialdemocratici di Martin Tranmael e dall’«Arbeiderbladet», organo governativo norvegese. Secondo Kuznetsov, dunque, il premio è a portata di mano e servirà all’appropriazione propagandistica del tema della pace che Stalin sta curando. In realtà la manovra fallisce: il Nobel per la pace del 1946 va a John Raleigh Mott, anima della Young Men’s Christian Association, e a Emily Greene Balch, leggendaria militante del movimento delle donne per la pace e antifascista convinta. «Due sconosciuti americani», riferirà stizzito Kuznestsov.

Non paghi, nel 1947 i sovietici si attivano per riproporre la candidatura della Kollontaj (alcuni suggeriscono insieme a Eleanor Roosevelt). Anche l’Italia pensa a un nome — quello di Maria Montessori: ma la legazione italiana, guidata da un diplomatico di razza come Guglielmo Rulli, deve far osservare a Roma che i termini per le candidature sono già scaduti e che senza un’adeguata preparazione internazionale la proposta «rischierebbe di non essere neppure presa in considerazione». Ma è su ben altra candidatura che Rulli deve informare Roma, in quella primavera: una candidatura che genererà un piccolo fascicolo documentario conservato nello splendido Archivio storico del ministero degli Esteri e intitolato «Premio Nobel per la Pace al Papa».

A maggio del 1947, infatti, alcuni giornali lanciano la voce che fra i candidati vi sia Pio XII. A Roma, dicono le carte della Farnesina, si sapeva da tempo che Alfonso Arias Schreiber, ambasciatore del Perù presso la Santa Sede (più noto per il suo coinvolgimento nel disguido filatelico che generò il famoso francobollo «Gronchi rosa»), aveva più volte affermato che a suo giudizio «nessuno più di Pio XII» meritava il Nobel per la pace. Aveva promesso di far diventare la candidatura una proposta panamericana, ma della promessa s’era perduta traccia e all’ambasciatore d’Italia presso la Santa Sede Pasquale Diana — presumibilmente da monsignor Domenico Tardini o forse da monsignor Giovanni Battista Montini, che erano i suoi interlocutori nel momento in cui il Papa aveva deciso di rimanere senza segretario di Stato — viene detto che in Vaticano non s’era fatto e non si sapeva di nessun passo.

Ma l’abbondanza di argomenti forniti a Diana insospettisce. Gli si ricorda infatti che nel 1946 il re Gustavo Adolfo di Svezia aveva conferito il premio Principe Carlo, istituito alla fine della guerra per chi si fosse distinto in maniera particolare in campo umanitario, a Pio XII: medaglia giunta «inattesa», attribuita senza consultazioni e senza segni premonitori, si sottolinea. Forse per dire che la mancanza di informazioni in Vaticano su un Nobel al Papa prometteva bene?

Colui che parla con Diana — sia esso Montini o più probabilmente Tardini — infatti esibisce uno scetticismo di facciata («sarebbe strano che appena a pochi mesi di distanza un altro Paese scandinavo, dove i cattolici sono così poco numerosi, volesse per la seconda volta onorare in modo particolare il Capo della Chiesa cattolica»). Ma subito aggiunge che «riuscirebbe tuttavia molto gradito in Vaticano avere conoscenza di quelle notizie che circa la voce in parola fosse dato di cogliere alla nostra legazione in Oslo». Lasciate cadere le promesse peruviane, è dunque alla diplomazia italiana che s’affida il compito di raccogliere dati su un evento che sarebbe complesso gestire.

Infatti i fasti di Stoccolma presuppongono che il laureato accetti l’onore di un Paese dove la Chiesa luterana è Chiesa di Stato — senza dire della prassi cerimoniale per cui il papato, il cui titolare è supremus magister per definizione e non per consenso, per principio non gradisce insegne o inviti che subordinino la sua autorità a quella di altri. Ma quel Nobel del 1947, anno di nascita della guerra fredda, evidentemente, è cosa diversa e accende per lo meno una curiosità vaticana.

Richiesto di un interessamento il 17 maggio 1947, il ministero mobilita Rulli, che il 4 giugno risponde da Oslo in modo circostanziato: dopo aver parlato con «personalità locali in grado di essere al corrente» dei lavori del comitato Nobel e pur non avendo informazioni dirette sulla presenza di una candidatura di Pio XII al premio per la pace, la legazione ha raccolto due giudizi nettissimi.

Il primo riguarda la dimensione confessionale: «Una decisione in questo senso incontrerebbe la disapprovazione della maggioranza dei norvegesi» dice Rulli; anche per questo, se pur fosse stato compiuto qualcuno dei passi vociferati, «la candidatura del Papa, anche se presentata, non verrebbe presa in considerazione dal comitato Nobel». In effetti le condanne pontificie contro il movimento ecumenico, che avevano nel Luteranesimo scandinavo un epicentro, avevano consolidato diffidenze dure da superare. Ma ancor più netto era il giudizio politico, altrettanto negativo: «Essendo qui considerato l’atteggiamento assunto dal Sommo Pontefice decisamente antirusso, una eventuale attribuzione a lui del premio Nobel per la pace verrebbe a costituire una aperta dichiarazione antirussa della Norvegia, il che non è per nulla nella linea politica di questo Paese». I membri del comitato Nobel, sono «al corrente della linea politica del proprio Paese e degli interessi della Norvegia in campo internazionale», e non ammetteranno — dice la legazione — un passo di questa portata.

In effetti il premio del 1947 andrà ai Quaccheri: suscitando la stizza sovietica e la proposta di un premio Gorkij da contrapporre al Nobel, che verrà effettivamente istituito, ma ovviamente come premio Stalin... Da Roma invece un prudente silenzio ufficiale: alle voci di stampa sul Nobel al Papa che tornano negli anni successivi — e che vedono Pacelli in competizione con Gandhi, Wallenberg, Beneš, Truman e Stalin... — non si darà più credito.

Dopo che nel 1963 a Giovanni XXIII verrà conferito il premio pace della Fondazione Balzan, il Nobel per la pace sarà una opportunità mancata per Paolo VI (che nel 1967 tenta una mediazione fra americani e vietnamiti). E un titolo negato a Giovanni Paolo II, quando, nel 2003, smaschererà con l’indice alzato l’ebbrezza della guerra dell’era Bush, ben prima che quella verità, così lampante per la diplomazia pontificia, diventasse tardivo senso comune.