Marcello Sorgi, La Stampa 18/8/2010, pagina 1, 18 agosto 2010
Il rivoluzionario che voleva cambiare il paese - Gli storici che tra qualche anno si dedicheranno alla lunga (e inconcludente) epoca della transizione italiana dovranno certamente occuparsi di Francesco Cossiga
Il rivoluzionario che voleva cambiare il paese - Gli storici che tra qualche anno si dedicheranno alla lunga (e inconcludente) epoca della transizione italiana dovranno certamente occuparsi di Francesco Cossiga. E dovranno riconoscere che lo scomparso ex Capo dello Stato, il Presidente emerito, come aveva deciso di farsi chiamare, ottenendo l’approvazione di una legge ad hoc per cancellare la fastidiosa exeità, è stato a modo suo un rivoluzionario. Non, certo, un Mao, né un Cohn-Bendit, né un Curcio (quest’ultimo, tra l’altro, molto rivalutato da lui in anni recenti, al punto che voleva nominarlo senatore a vita), tanto per fare tre esempi molto diversi tra loro. E neppure un Garibaldi, per restare alla tradizione italiana. Cossiga la sua rivoluzione voleva farla applicando la Costituzione e le leggi e rompendo la convenzione che aveva fatto dell’Italia per decenni un Paese immutabile, legato a una specie di elastico così forte da riportarla continuamente indietro le rare volte che riusciva a fare un passo sulla strada del cambiamento. Negli ultimi anni, quasi una ventina dall’uscita dal Quirinale, compatibilmente con una salute malferma, alternava periodi di forte presenza politica e istituzionale a repentini abbandoni nella trascuratezza. Così, talvolta per settimane, non si alzava dal letto, o lo faceva solo per introdursi in vestaglia, con la barba lunga e la faccia sfatta, nel suo studio ipertecnologico in cui era felice di sperimentare congegni e gadget avveniristici e mangiare con le mani polli arrosto della vicina salumeria Franchi. Nella casa romana in Prati - un normale appartamento, con il disordine in cui a volte amano vivere gli uomini soli - capeggiata, si fa per dire, dal paziente e molto affezionato prefetto Mosino, lo accudiva una corte infinita di collaboratori e uomini della sicurezza, che rappresentavano tutte le stratificazioni temporali della sua lunga vita di potere e dell’elenco di cariche importanti che soltanto lui, amava ripetere con orgoglio, poteva dire di aver ricoperto: sottosegretario, ministro, presidente del Consiglio, presidente del Senato, Presidente della Repubblica. Sempre il più giovane, nella storia repubblicana, a sedersi su poltrone così prestigiose. E il più rapido a essere dichiarato finito, quando le lasciava, salvo poi risorgere. Questo a dir poco originale modo di vita, a metà strada tra un oracolo e uno sciamano, a cui si era abbandonato già nell’ultimo periodo della Presidenza della Repubblica, aveva fatto nascere la voce che Cossiga fosse impazzito. Lo vociferavano bisbigliando gli esterrefatti amici democristiani, che lo avevano elevato al soglio più alto e lo andavano a trovare continuamente, scongiurandolo di farla finita. Non riuscivano a spiegarsi il bombardamento quotidiano che nei due anni fatidici, il 1991 e il ’92, che precedettero il crollo della Prima Repubblica, l’allora Capo dello Stato praticava personalmente e direttamente, con un personalissimo stile mediatico che prevedeva discorsi dinamitardi, distillati in occasioni ufficiali, e interviste a sorpresa, la maggior parte delle quali destinate proprio alla Stampa e concesse a Paolo Guzzanti, che diventò in quei mesi una sorta di suo biografo permanente. Cossiga, per tutta risposta, i suoi vecchi amici dc testualmente li prendeva «a pesci in faccia». Siccome era molto meticoloso, e amava, come tutti i leader vecchia maniera, rivedere i testi delle interviste prima che fossero pubblicate, una sera che non riusciva a ritrovare Guzzanti, che a sua volta, non essendo più stato in grado di contattarlo, aveva rinviato al giorno dopo la pubblicazione dell’articolo, telefonò a casa del sottoscritto. A dire la verità, più che sera era notte, saranno state le due e mezzo. Un imbarazzato centralino del Quirinale mi svegliò nel primo sonno e solo dopo essersi accertato che ero in grado di ragionare mi comunicò che di lì a poco il Presidente avrebbe voluto parlarmi. Passò una mezz’ora in cui non sapevo che fare. Poi il telefono trillò di nuovo ed era Cossiga in persona, eccitato e pimpante come non mai. «Ha letto la mia intervista? Devo fare una correzione». Spiegai che non avevo potuto leggerla perché la pubblicazione era stata rinviata. Cossiga si accigliò, temeva che il rinvio potesse raffreddarne l’attualità. Lo rassicurai: «Presidente, le sue interviste sono sempre esplosive». Insistette: «Deve leggerla subito. Gliela mando. Mi dia il suo numero di fax». Provai a obiettare che a quell’ora comunque il giornale non avrebbe potuto stamparla, ma non ci fu niente da fare. Attorno alle tre ricevetti così un paio di fogli, corretti a mano dallo stesso Cossiga che aveva anche azionato personalmente il fax. Volle poi che li rileggessimo insieme e li commentassimo, e solo all’alba la sua agitazione si placò piano piano in questo modo. Eppure Cossiga non era affatto pazzo. Anzi aveva una sua logica stringente, maturata nel dolore di una vita piena, sì, di grandi soddisfazioni e grande potere, ma anche di eventi terribili, come, e forse più di tutti, il Caso Moro, che lo trovò ministro dell’Interno e lo vide assistere impotente al lento incedere del suo amico-maestro verso il patibolo brigatista. Fu in quei tremendi 55 giorni che il giovane Cossiga, a 53 anni, dovette capovolgere le visioni di una vita. Nato cattolico con un nonno massone, nella Sassari laica delle grandi famiglie (suo cugino diretto era Enrico Berlinguer, l’ultimo grande segretario del Pci, genere Togliatti), era diventato democristiano più che altro per spirito di contraddizione. Si era iscritto a una correntina chiamata dei «giovani turchi» che si proponeva già negli Anni Sessanta l’impossibile rinnovamento della Dc. Poi era cresciuto, e approdando a Roma aveva militato nei «pontieri», un’altra di quelle correnti che in vista dei congressi si attrezzavano per entrare comunque nel gruppo di comando scudocrociato. Per un po’, il suo mentore era stato Taviani, il capo partigiano che all’uscita dalla guerra era stato tra i fondatori dell’organizzazione segreta anticomunista «Gladio», come uomo di riferimento degli americani, in un Paese che a lungo le amministrazioni Usa avrebbero considerato una loro colonia. Il mix politico e caratteriale era questo. La Sardegna, la sua famiglia per metà comunista, la militanza nel pezzo di Democrazia Cristiana più filoamericano che ci fosse, la scoperta di Moro, il leader più antiamericano della Dc, come suo nuovo maestro. Poi c’era qualche tic: la passione per l’elettronica, l’amore per l’Inghilterra e la sua Costituzione flessibile, la decisione improvvisa di farsi conferire la cittadinanza croata, un debole per i servizi segreti come fonte di pettegolezzi di Stato, l’amicizia recente con Roberto D’Agostino, il temuto editor del sito di gossip Dagospia, di cui l’Emerito era diventato fonte accreditata. Fu esattamente questo mix che si dissolse, di fronte alla «linea della fermezza», voluta da suo cugino Berlinguer contro le Br, e alla confusione portata dagli esperti americani e dalla Cia, precipitatisi in Italia, e in un Viminale in cui l’allora ministro dell’Interno finì per non contare più nulla, ed essere travolto dall’assassinio di Moro. Per lunghi mesi, a testimonianza di un’epoca in cui una parte del movimento studentesco parteggiava apertamente per il terrorismo, e aveva individuato nel ministro il suo principale obiettivo, sui muri di Torre Argentina, al centro della Capitale, rimase questa scritta, di cui l’uso della «K» e il paragone con l’attore indiano protagonista della serie tv Sandokan rivelavano la matrice indiana-metropolitana: «Kossiga come Kabir Bedi, je puzzano li piedi». Incanutito, sfregiato da una malattia incurabile che gli ricopriva il volto di macchie, il Cossiga che dopo le dimissioni da ministro dell’Interno riapparve un anno dopo come presidente del Consiglio non era solo un uomo che aveva somatizzato la tragedia Moro. Era un altro. In politica interna - ciò che lo aveva portato alla guida di un governo che doveva aprire la strada al ritorno dei socialisti al governo - aveva capovolto l’orizzonte delle sue amicizie politiche, allontanandosi dal Pci e trovando in Craxi, l’unico leader che avesse contrastato la linea della fermezza con un’offerta di trattativa ai brigatisti, l’interlocutore che lo avrebbe accompagnato fino alla fine. Ma la mutazione più forte era una sorta di contrappasso: Cossiga si era a suo modo intestardito sulla vicenda terrorista, s’era messo in testa di capire - come aveva tentato di fare Moro nella prigione Br - se al fondo della follia assassina che spingeva tanti giovani a cercare la morte, propria e degli altri, potessero esserci anche delle ragioni comprensibili, e come tali contrastabili. Questo particolare atteggiamento, oltre a convincerlo, in anni successivi, a incontrare in carcere i brigatisti detenuti ex componenti del commando che aveva sequestrato Moro, lo spinse in buona fede ad avvertire Carlo Donat Cattin, suo collega di governo, che il figlio terrorista stava per essere arrestato. Scoperto, fu costretto alle dimissioni da Berlinguer, che in fatto di lotta al terrorismo non tollerava defezioni. Negli anni che seguirono, tre o quattro, di silenzio, prima di approdare alla presidenza del Senato e di lì al Quirinale, Cossiga, all’insaputa di tutti, doveva maturare anche per questo l’insieme di convinzioni che ne avrebbero fatto il Grande Picconatore della Prima Repubblica. Va detto: si trattò di una maturazione personale assolutamente intima. Se De Mita e gli altri capi democristiani avessero immaginato cosa frullava nella testa del futuro Presidente non lo avrebbero certo candidato al Quirinale. Per i primi cinque anni del mandato, infatti, Cossiga rimase zitto o quasi, eccettuata una complicata questione da lui posta e passata ad esperti costituzionalisti, che non riuscirono a risolverla, su chi dovesse comandare in Italia in caso di guerra. Poi prese a parlare tutti i giorni, sparando dal Torrino del Quirinale parole che si abbattevano come pietre sul traballante edificio repubblicano. Qui sarebbe troppo lungo elencare le accuse e l’interminabile elenco di personalità prese di mira. Serve forse di più rintracciare il filo che Cossiga seguiva, convinto com’era che l’Italia, per salvarsi, dovesse sfuggire a due morse differenti: quella, che aveva tenuto in piedi il Paese per più di quarant’anni, del compromesso tra Dc e Pci. E l’altra, stretta dalla magistratura su una politica ormai in libertà vigilata, che di lì a poco sarebbe franata su Tangentopoli (Cossiga arrivò a mandare i carabinieri nella sede del Consiglio Superiore della Magistratura, per impedire che l’organo di autogoverno dei giudici processasse il governo Craxi). Era evidente che aggredire insieme questi due anomali ma indistruttibili pilastri della Prima Repubblica doveva risultare una strategia temeraria. Di conseguenza, poco prima della fine del settennato, Cossiga si ritrovò nuovamente dimissionario e dimissionato dal Pds di Occhetto, erede del Pci berlingueriano. Stavolta sembrava davvero finito. Ma a dispetto di qualsiasi previsione, rieccolo, nel ’99, dopo la caduta di Prodi, mettersi a capo di un gruppetto di parlamentari, i cosiddetti «Quattro gatti», scegliere e incoronare D’Alema, il più tradizionalista dei giovani provenienti dalla scuola del vecchio Pci, come primo presidente del Consiglio post-comunista. In qualche modo era la sua chiusura del cerchio, la realizzazione del disegno che era stato di Moro. Intanto la situazione era cambiata. L’esperimento durò poco. Cossiga se ne dispiacque, non voleva rassegnarsi all’idea che fosse suonata l’ora per le vecchie alchimie democristiane. Ormai l’Italia di Berlusconi era pronta a pensionare una volta e per tutte il vecchio Presidente.