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 2010  agosto 18 Mercoledì calendario

Parlo arabo? Mica tanto - Imprevedibili risvolti della globalizzazione. A Milano i pizzaioli egiziani superano alla grande i napoletani (119 contro 10 partenopei doc e una trentina di campani)

Parlo arabo? Mica tanto - Imprevedibili risvolti della globalizzazione. A Milano i pizzaioli egiziani superano alla grande i napoletani (119 contro 10 partenopei doc e una trentina di campani). Del resto, millenni prima che arrivasse la Margherita, dalle loro parti s’inventava la pita, focaccia di acqua e farina cotta su pietra rovente. In compenso, o meglio per contrappasso, su una via di Beirut si incrocia il nastro giallo che la polizia usa per delimitare gli incidenti stradali. Porta scritto a grandi caratteri «Non uccidete la nostra lingua» e contorna una bella consonante in arabo, dipinta sull’asfalto. Questa originale iniziativa si deve agli organizzatori di un festival dell’arabo (inteso come lingua), tenutosi in questi giorni nella capitale libanese per iniziativa di un’associazione non governativa che si chiama «Feil Amer» e ha per obiettivo la tutela di questa affascinante e antica lingua. «I nostri studenti non pensano quasi più in arabo», dice mestamente Suzanne Talhouk, la poetessa trentenne che ha fondato il movimento. Per motivi evidenti all’occhio e all’orecchio, in questo Paese mediorientale la multietnicità non è certo una sigla dell’ultima ora, piuttosto una cifra storica che non si deve solo al suo passato coloniale quanto alla vocazione di «porta» che la regione ha sempre avuto. Qui, i giovani si salutano ormai con un rituale «Hi kifak, ça va?» che in quattro brevi parole raccoglie inglese, arabo e francese. Qui, il primo ministro Saad Hariri ha infarcito di strafalcioni il suo discorso inaugurale alla Camera, destando reazioni indignate e insieme valanghe di risate. Costretto a fare i conti con la lingua franca dei nostri tempi, cioè l’inglese, oltre che con gli strumenti di comunicazione globale che esigono una piattaforma comune (tanto che, così come per l’ebraico, anche per l’arabo c’è chi sta pensando a una trascrizione standard in caratteri latini), la lingua dell’Islam non è in crisi solo nel multietnico Libano. La Siria ha avviato iniziative di protezionismo, come quella che prevede almeno il 60 per cento delle insegne in arabo. Senza contare che ormai in alcuni Paesi del Golfo, come il Qatar o gli Emirati Arabi Uniti - e qui siamo proprio nel cuore dell’Arabia intesa come luogo geografico, storico e culturale - la maggioranza della popolazione non è più arabofona perché appartiene alle diverse etnie giunte in quelle ricche zone per lavorare. Non è proprio il caso di gridare alla morte dell’arabo, spiega Elias Mouhanna, intellettuale libanese. Effettivamente, 280 milioni di persone lo parlano nel mondo. Il problema sorge quando debbono parlarsi fra loro: un marocchino e un saudita faticano a comunicare, a meno di non accantonare i rispettivi «dialetti» (che in realtà non sono tali, bensì diverse declinazioni e intonazioni della stessa lingua) e passare all’arabo classico. Un idioma, questo, prettamente letterario, di altissimo profilo espressivo e dalla grammatica decisamente complessa. Non per niente, già nel XIII secolo, Ibn Manzour, funzionario del sultanato mamelucco in Africa, spinto dal desiderio di fissare e preservare la lingua, preparò il grande lessico dell’arabo in venti volumi, Lisan al-Arab, che è ancora oggi il thesaurus di riferimento ai quattro angoli del mondo. Niente paura, dunque, l’arabo non è in estinzione ma vivo e vegeto come da millenni a questa parte, spiega Mouhanna. E il confronto con altre civiltà e diverse parlate non può che far bene alla tradizione. Intanto però in Libano i bambini imparano l’abicì in francese e in inglese, e quando arrivano al liceo faticano ad andare al di là della quinta lettera dell’alfabeto arabo. La lingua è lo specchio dell’identità, lamentano i puristi. Il mondo si muove e non possiamo farci niente, dicono i fautori del «Facebook arabic» - cioè di una lingua virtuale buona per tuffarsi nella rete. Certo è che, guardando il nostro povero italiano mutilato di congiuntivi e infarcito di anglismi, vien da pensare che tutto il mondo è paese e la querelle sull’arabo ci riguarda non meno di quella sulla pizza egiziana.