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 2010  agosto 18 Mercoledì calendario

CINQUANTA MEGLIO DI VENTI

«Facciamola da me, che ho Matilde».
Matilde è la bambina che Lamberto Sposini, 58 anni, ha avuto «da grande», quando la sua prima figlia, Francesca, di anni ne aveva già 30, e lui proprio un ragazzino non era, a 50 appena compiuti. Per buona parte dell’intervista gli sta addosso, sul divano di casa a due passi dal Circo Massimo a Roma. Scalza, sul parquet, vestitino a fiori leggero, estivo come il caschetto, l’indice a stringere il passante dei jeans di papà. Che, dopo avere provato «vertici e conduzione dei due Tg più importanti in Italia, il Tg1 e il Tg5» e «due anni “no”» nel lavoro e in amore, ha imparato una cosa: cambiando la rotta, non sempre si va a stare peggio come all’inizio si crede. Ora, per esempio: si prepara a tornare, da settembre e per la terza stagione, con La vita in diretta, programma di punta del pomeriggio di Raiuno. In compagnia, per la prima volta. E di Mara Venier.

È contento?
«A dire il vero, appena la Rai mi ha comunicato la scelta di affiancarmi una conduttrice donna, sono rimasto perplesso. La vita in diretta è sempre andata bene. Solo, ho vinto, e con largo margine, la concorrenza. Poi, mi hanno spiegato che è un arricchimento per dare più peso al programma. Ne ho preso atto e dividiamo la poltrona: io mi occuperò più della parte politica e sociale, delle emergenze e della nera. Mara più di quella leggera: la cronaca rosa, lo spettacolo».
La conosce bene?
«Per qualche tempo, abbiamo abitato nello stesso palazzo, a Campo dei Fiori. Mara era al piano di sopra, io di sotto. Buongiorno e buonasera. Mai un caffè insieme, una cena, una festa. Uscì però sui giornali una foto di me sotto il portone con sua figlia, Elisabetta Ferracini. La stavo salutando. Titolarono Saranno Sposini. Fu il primo fascicolo che l’allora neogarante della privacy, Stefano Rodotà, si ritrovò sulla scrivania».
Si diceva che lei potesse approdare al Tg di La7, con un ritorno da vice di Enrico Mentana, dopo gli anni insieme del Tg5.
«Abbiamo rischiato di ricomporre il tandem. La pensiamo allo stesso modo su come dovrebbe essere l’informazione in Italia. Per me, Enrico resta il numero uno. Ho avuto colloqui con la rete, poi sono state fatte scelte diverse».
Il gioco non valeva la candela?
«Lo sta dicendo lei».
Nel 2006 lasciò il Tg5 e Mediaset, dove lavorava dal 1991, in polemica con l’allora direttore Carlo Rossella, che non aveva mandato in onda una controreplica di Piero Fassino ad alcune parole di Silvio Berlusconi. Che cosa pensa, oggi, del Tg1 di Augusto Minzolini?
«Un direttore è libero di sposare la linea editoriale che vuole, di cambiare conduttori e di fare quello che crede, compatibilmente con il codice penale e le buone maniere. Poi i conti si fanno sull’attendibilità. Se da giornalista vengono meno i presupposti per stare lì, si toglie faccia e cappello, si ringrazia e si va via. Anche pagando in proprio. Non ho mai sopportato i martiri della palude. Non è un caso che sono dieci anni che non voto».
Poi con Rossella vi siete chiariti?
«Non abbiamo mai fatto pace. Ci siamo incontrati, sempre in aeroporto. Salutati. Chiariti mai».
Seguirono tempi non rosei, in cui ha dovuto «ridefinirsi». La sorpresero ciondolante e appesantito. Non in gran forma.
«Colpa di un fotografo poco abile. E di una maglietta troppo comoda. Ma certo non stavo bene: a 54 anni, vivevo una congiuntura negativa, tra addio al Tg e vicissitudini della vita privata. Il “momento no” durò due anni. Brutti. In cui sono stato sulla linea di galleggiamento, per la sopravvivenza».
Si era tagliato i capelli corti. Scrissero che l’aveva fatto perché era giù. I più maligni azzardarono in depressione.
«Dissero che volevo darci un taglio, e non solo in testa. Era vera solo la prima parte. Da quando avevo 18 anni, sognavo di raparmi a zero. Non avevo mai potuto, per via del video, di telespettatori sensibili ai cambi immagine. Nel 1994, quando conducevo il Tg5, provai a farmi crescere pizzetto, poi barba e baffi. Dopo un mese, a furor di popolo, ho dovuto tagliare tutto. La redazione fu invasa di lettere e telefonate che gridavano allo scandalo. Comunque, in quei due anni, ho imparato che la vita è al lordo di tutto, incluso il dolore. E che, col cambiamento, si diventa più ricchi. E non sempre si va a stare peggio».
E come si va a stare?
«Diversi. Un giorno dal niente mi telefona Fabrizio Del Noce, con cui avevo lavorato quando era corrispondente in America. Ci siamo visti: “Fai La vita in diretta”, mi dice. E io: “Perché no?”».
Alcuni spettatori che la seguono dicono sia annoiato nella conduzione. Come non le piacesse.
«Non è lavoro di serie B, ci metto tutto l’impegno anche se agli occhi dei più fa poco prestigio. Sono solo serio. Porto in onda il mio bagaglio da ex capo degli Speciali e inviato. Allora, ho seguito di tutto: Papa, terrorismo, mafia, inquinamento, veleni, prima guerra del Golfo, ’ndrangheta, sequestri di persona. E poi, certo, il Paese reale non è quello che s’interroga su Sposini annoiato. È quello che vedi ciabattare in infradito negli outlet di periferia. O alle sagre».
Le piace, il Paese reale?
«No, ma bisogna entrarci dentro, per capirlo. Andare a vedere perché la Lega si mette in tasca i voti della sinistra al Nord. Avvicinarsi. Ci è arrivato, e prima di tutti, Silvio Berlusconi».
Lei finì nei guai anche per via di alcune telefonate intercettate nell’inchiesta Calciopoli: con Luciano Moggi, direttore generale della Juventus, prima del Processo di Biscardi, da cui si poteva intendere vi accordaste su temi e toni del dibattito televisivo.
«L’Ordine dei Giornalisti mi sanzionò per questo con tre mesi di sospensione. Feci ricorso. Sono passati quattro anni. Proprio in questi giorni, mi è arrivata una lettera col parere di competenza della Procura della Repubblica, che mi proscioglie. Lì, la vicenda è stata un po’ losca».
Sa che uno dei primi risultati che esce su Google a suo nome è lei che nel 2006 mangia l’indimenticata coscia di pollo in diretta?
«È stata una berlusconata ante litteram, restava solo quella cosa clamorosa, da fare, per dimostrare che cantonata stavamo prendendo con l’influenza aviaria, di cui sarebbero dovute morire decine di migliaia di persone. A ripensarci, quella coscia era anche buona. E credo risollevò di un 1 per cento le vendite crollate dei polli».
Lo sognava fin da bambino di fare il giornalista?
«Mai avuto il sacro fuoco. Era il 1973. Nella profonda provincia umbra, avevo 18 anni, ero già sposato, e con una bambina. Avevo solo bisogno di lavorare. Paese Sera stava aprendo le sue cronache locali. Così, mi presentai alle sedi regionali. Iniziai con dieci righe sul referendum sul divorzio. Le scrissi a penna. Non sapevo si dovessero battere a macchina. Non uscirono mai».
Poi il vento ha girato, ed è stato fortunato. Lo diceva il poeta brasiliano Vinícius de Moraes: «La vita è l’arte dell’incontro».
«Gli incontri fanno metà dell’opera. Bisogna incappare nelle occasioni. Se no, puoi essere il più bravo, e rimani sott’acqua».
Ora come sta?
«Faccio il papà di Matilde (avuta con la giornalista Sabina Donadio, ndr), il nonno dei miei nipoti, di quattro e un anno, figli di Francesca, che ha 38 anni».
Sua figlia fa la giornalista?
«Lavora nella pubblicità. E ha fatto tutto da sola. Per sistemarla, non ho mai alzato la cornetta. È il mio orgoglio. L’ho fatta che ero un ragazzino».
Non tornano i conti, però. Lei ha raccontato di avere fatto l’amore per la prima volta nell’estate dei suoi 18 anni, in un campeggio a Cattolica. E non con la sua prima moglie.
«Mi sono sposato poco dopo la prima volta. Erano altri tempi. Non mi sentivo un tardone. Neanche ad averlo fatto a 18 anni, perché era la norma. Poi mia figlia è stata – la parola è brutta, ma tant’è – un infortunio. È capitata. Sono felicissimo, però, di averla avuta».
Meglio essere padre da giovane o oggi?
«Ho fatto il papà quando di solito non lo fanno gli altri: a 20 e 50. La prima volta era presto. Avevo appena finito il liceo. Non sono stato molto presente. Meglio adesso. A Matilde dedico tempo e cure mature. E comunque riesco a sorprendermi: a tre anni, usava il congiuntivo».
È vero che non è mai stato un grande corteggiatore per scarsa pazienza?
«A dir la verità, non c’è mai stato gran bisogno. Sono stato sempre molto corteggiato, e ho la presunzione di dire non per il potere. Ora, non è più il tempo».
E che le sue donne finiscono sempre dall’analista?
«Sì, è strano: la maggior parte delle donne che ho conosciuto, in intimità e no, sono state almeno una volta a farsi psicoanalizzare».
Lei ha mai pensato di andarci?
«Non ci credo. Sono scettico. Come fa, uno che non ti ha mai visto, a raccontarti perché ti è successo qualcosa? Io ho la campagna. È catartica. E mi basta».
Per questo ha casa in Umbria.
«Dove scappo, appena ho due ore mie. Il silenzio dei campi, la notte, gli insetti, hanno su di me un potere ipnotico. Posso fare nulla per una giornata intera, lì, e stare bene. Curo tre orti. In cui c’è di tutto, dai peperoni e melanzane, dai pomodori alle zucchine. Ho le galline che mi fanno dieci uova fresche al giorno».
Non deve far più la spesa.
«Invece sì, ma non a caso: faccio anche trecento chilometri solo per andare a comprare il pane. Ho i miei pusher alimentari: per il pesce, vado a Porto Santo Stefano; la pasta mi arriva a casa da Gragnano; per i pelati, vado in zona vesuviana; a Bevagna, in Umbria, i salumi. Amo cucinare. E l’arte contemporanea. Dunque, per me conta che cosa c’è nel piatto, e che cosa è appeso alle pareti».
Da quasi trent’anni finisce nelle classifiche degli uomini più desiderabili. Averne quasi 60 com’è?
«Piaccio alle donne della mia stessa estrazione, over 60 soprattutto. Sentono, credo, che sono figlio del popolo: mio padre era un operaio, mia madre una casalinga, i miei nonni contadini. E io ho un bisogno fisico di toccare la terra: se non ci metto le mani dentro, sto male».