Varie, 18 agosto 2010
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Rubin Robert
• New York (Stati Uniti) 29 agosto 1938. Economista • «Per capire cosa rappresenta Bob Rubin bisogna partire dal 16 febbraio del 1999. Alla Casa Bianca c’è Bill Clinton, il boom di Internet sostiene la Borsa a Wall Street, George W. Bush è ancora soltanto il governatore del Texas e nelle edicole è appena uscito il nuovo numero di Time: la copertina è dedicata al “Comitato che ha salvato il mondo”. In primo piano c’è il governatore della Federal Reserve Alan Greenspan, alle sue spalle i numeri uno e due della politica economica, il segretario al Tesoro e il suo vice, Robert Rubin e Lawrence Summers. E hanno appena salvato il mondo dalla più grave crisi finanziaria mai vista, il crollo delle economie del sud-est asiatico, ma nel frattempo, tutti e tre, stanno preparando quella che otto anni dopo sarebbe esplosa nell’estate del 2007. Bob nasce nel 1938, cresce a Miami, figlio di un avvocato studia da avvocato, per un periodo anche a Parigi dove sulla Rive Gauche (che era ancora la Rive Gauche del Cafè des Flores) frequenta Jean-Paul Sartre e Albert Camus. Poi comincia a lavorare a New York, nel mondo degli affari, e nel 1966 inizia la carriera dentro quella che già all’epoca era tra le più prestigiose aziende di Wall Street, Goldman Sachs. Comincia subito dal settore più speculativo, l’arbitraggio: sfruttare le imperfezioni del mercato che possono garantire enormi profitti, una delle due cose che hanno reso famoso Rubin nella sua carriera a Goldman. L’altra sono le massime perché, in base ai ricordi di chi ha lavorato con lui, sembra che Bob parli solo per aforismi come “Ego, arroganza, credere troppo nella propria importanza. Se permetti loro di svilupparsi, finirai fuori strada”. Dopo cinque anni Rubin si occupa di titoli di Stato ed è già partner, cioè membro della famiglia Godman, ma il vero salto è nel 1980 quando entra nel comitato di gestione della compagnia e convince gli altri membri a puntare sul settore dove la speculazione consente i maggiori profitti, se si riescono a valutare bene i rischi: le materie prime, un campo in cui Goldman Sachs (che era sempre stata specializzata in servizi finanziari alle imprese) ancora non aveva competenze e interessi. La prima mossa è assumere un trader specializzato in cereali, Dan Amstuz, poi, visto che il settore rende, una mattina Rubin si presenta in assemblea e dice: “Secondo me dovremmo fare petrolio”. Anche questa intuizione si rivela di successo, e Rubin conquista la poltrona più alta, quella di presidente della banca, anche se deve condividerla con Steve Friedman, altro avvocato prestato alla finanza. I due sono complementari, Friedman si concentra sui numeri e i dettagli, Rubin sugli scenari. A Friedman spetta agganciare i clienti più importanti, a Rubin gestirli quando non sono soddisfatti o avanzano richieste eccessive. Anche se non ne ha il fisico né lo stesso successo con le donne, Rubin comincia a essere considerato l’Henry Kissinger della finanza, con una capacità di visione e di comprensione delle logiche di balance of power che lo accomuna - oltre alle spesse lenti degli occhiali - al consigliere per la Sicurezza nazionale di Richard Nixon. A un certo momento della vita di tutti i migliori tra i Goldman boys arriva la chiamata, e quasi tutti rispondono di sì. Nel caso di Rubin succede nel 1992. Il suo amico Warren Christopher, appena nominato segretario di Stato dal giovane neopresidente Bill Clinton (che ha vinto contro tutte le previsioni degli uomini di Goldman) lo convoca a Washington per un colloquio. Rubin è già stato vicino ai candidati sconfitti Walter Mondale e Michael Dukakis, ma è la prima volta che ha la possibilità di lavorare con un candidato che ha vinto. Clinton e Rubin non si conoscono, ma al presidente hanno fatto il nome di Bob per il nuovo Consiglio economico che, nelle intenzioni, dovrebbe essere simile a quello per la Sicurezza nazionale, un organismo di compensazione tra i vari punti di vista nell’Amministrazione e dal quale il presidente possa aspettarsi pareri imparziali e autorevoli. Christopher non fatica molto per convincere Rubin che, in giornata, torna a New York già deciso. Il giorno dopo annuncia il suo addio al board di Goldman Sachs, incassa il suo stipendio di 26 milioni di dollari, e si trasferisce nella capitale. Nel 1995 Lloyd Bentsen si dimette da segretario al Tesoro e Bob Rubin rappresenta una scelta naturale. Il suo numero due è Larry Summers, destinato dai geni (in famiglia ha due Nobel per l’Economia) a essere tra gli economisti più brillanti della sua generazione. La prima prova per i salvatori del mondo è evitare il tracollo del Messico in seguito una crisi di fiducia dei mercati finanziari spaventati dai suoi conti pubblici che si stava traducendo in una fuga dal peso. Non c’è molto tempo: più il peso si indebolisce, più onerosi diventano i debiti in valuta estera del Paese, bisogna dargli subito aiuti in quantità tale da rassicurare gli investitori internazionali. Il problema è che nessuno vuole farlo. È appena stato approvato il Nafta, il trattato di libero scambio con Messico e Canada, e gli elettori sono ancora frastornati dai dibattiti sulla fuga dei posti di lavoro oltre confine, dei messicani che si arricchiscono a spese della classe operaia americana. Il 79 per cento degli intervistati negli Stati Uniti vuole abbandonare il Messico al suo destino. Rubin ne discute con Greenspan e Clinton, riesce anche a convincere i leader repubblicani che controllano la maggioranza nei due rami del Parlamento, Newt Gingrich (Camera) e Bob Dole (Senato). Ma non ci sono le condizioni politiche per farlo passare, il pendolo del consenso oscilla verso l’isolazionismo, anche economico. Visto che non si può convincere il Parlamento, Rubin lo aggira e sfrutta un vecchio fondo creato sotto il presidente Roosevelt per mettere 10 miliardi di dollari a disposizione del Messico. “Quando ho presentato la soluzione al presidente lui non ha esitato un attimo ad approvarla”, racconta Rubin in una telefonata con il presidente della Fed Greenspan. Dopo che gli Stati Uniti hanno dato il segnale, anche la comunità internazionale si mobilità e, guidata dal Fmi, offre al Messico 20 miliardi. Non è un regalo, ma la facoltà di accedere a prestiti molto onerosi. Ai mercati basta sapere che le finanze messicane ora sono coperte dai capitali internazionali, quindi il Messico prende in prestito solo una piccola parte di quei soldi, il peso si rivaluta e il Paese è salvo. Alla fine dell’operazione gli Stati Uniti ci hanno guadagnato 500 milioni. Rubin e Summers hanno salvato il mondo per la prima volta. “Fra me e Rubin c’era una fiducia reciproca, che con il tempo è diventata sempre più profonda. In nessuna occasione ho pensato che avrebbe agito diversamente da quanto mi anticipava, e io mi sono comportato sempre nello stesso modo con lui”, ha scritto Greenspan nelle sue memorie. Sulla stampa finanziaria si comincia a parlare di Rubinomics, l’economia di Rubin. Altro non è, come rivendica l’interessato, che “l’essenza stessa della presidenza Clinton” e si riassume in “aumento dei prezzi delle azioni, riduzione dell’inflazione, calo della disoccupazione, crescita della produttività, dollaro forte, tariffe basse, volontà di intervenire nelle crisi globali e, soprattutto, un’enorme eccedenza di bilancio”. All’inizio del 1996, in un vertice del G7, Rubin rafforza ancora il suo legame con Greenspan. A margine di un dibattito lo chiama da parte e gli dice: “Quando tornerai a Washington riceverai una telefonata del presidente”. Clinton ha deciso di riconfermarlo alla Fed, anche se Greenspan è repubblicano. La Borsa cresce, il boom dell’economia di Internet è appena cominciato, i conti pubblici sono in miglioramento anche grazie a Rubin, che è un conservatore fiscale e quindi ricade nella categoria dei new democrats, i centristi che rifiutano l’immagine classica del democratico fedele solo alla logica del tax and spend, tassa e spendi. Tutti sono consapevoli che non può durare per sempre, ma secondo Rubin ci sono almeno tre ragioni per non preoccuparsene: “Primo, non c’è modo di sapere con certezza quando un mercato è sopravvalutato o quando è sottovalutato; secondo, non puoi battere le forze di mercato, per cui discuterne non porta alcun bene, terzo: è probabile che qualunque cosa tu dica ti si ritorca contro e danneggi la tua credibilità. Le persone capirebbero che non ne sai più degli altri”. Una versione un po’ più elaborata di questi principi diventerà la famosa “dottrina Greenspan”: compito di una Banca centrale non è prevenire le bolle speculative, ma fare pulizia quando scoppiano. Poi arriva il 1997. La reazione a catena inizia con la speculazione sul baath tailandese e il ringgit malese e dopo poco tocca alla Corea del Sud, considerata fino a quel momento un miracolo economico, ma la sua Banca centrale invece di avere in cassa 25 miliardi di dollari per affondare le tensioni sul mercato delle valute (come credono negli Stati Uniti) ne ha zero. Rubin lavora ventiquattro ore al giorno per una settimana e riesce a dirigere un salvataggio con il Fmi da 55 miliardi di dollari. Ancora oggi gli chiedono l’autografo quando va in Corea. A Washington temono che il salvataggio crei un precedente pericoloso, e hanno ragione. Nel 1999, all’apice della sua carriera pubblica, Rubin lascia il Tesoro al suo erede e allievo Larry Summers. Molti pensano che ambisca alla poltrona dell’amico Greenspan. “Ho avuto le responsabilità supreme a Goldman Sachs e al Tesoro, non voglio che accada di nuovo. Ero arrivato a un punto della mia vita in cui ho deciso di provare a vivere diversamente”, scrive Rubin nelle sue memorie, “In an uncertain world”. Bob torna a Wall Street. A Summers lascia in eredità una bolla sul punto di scoppiare, la bocciatura di una riforma della commissione che regola i derivati che mirava ad aumentare la trasparenza (non averla fatta ha contribuito alla crisi [...] sostengono molti) e un progetto di legge che sarà poi firmato da Summers che cancella il Glass-Steagall Act del 1933, che separava le banche di investimento da quelle che custodiscono i depositi dei privati. E anche questo ha contribuito alla crisi dei subprime, permettendo a banche commerciali (cioè quelle che hanno contatto diretto con il pubblico) di costruire società fuori bilancio che investivano in strumenti finanziari ad altissimo rischio. A New York c’è già pronto un posto per lui a Citigroup, la banca che sta per diventare la più grande del mondo. Rubin rifiuta gli incarichi di vertice, rimane un semplice consulente che però, dicono alcuni manager, interviene in tutte le decisioni importanti e ha anche un ruolo simile a quello del maestro Yoda di “Guerre Stellari”: “Vai da lui e ottieni una dose di saggezza”. Affianca prima Charles Prince, poi Vikram Pandit, i presidenti della banca, a entrambi consiglia di puntare sui derivati e le materie prime. Nel 2006, proprio quando il mercato sta per iniziare a sgonfiarsi, suggerisce di provare con i titoli legati al settore immobiliare. Rubin pranza una volta a settimana con pochi clienti selezionati della banca e, nel tempo libero, rafforza la sua influenza sul Partito democratico. Fonda l’Hamilton project, sezione di ricerca della clintoniana Brookings Institution, e mantiene ottimi rapporti con Hillary Clinton e, dal 2004, con Barack Obama, di cui diventa consigliere ascoltato ma sempre più imbarazzante quanto Citigroup inizia a sprofondare in Borsa. La banca per ben due volte deve essere aiutata dallo Stato ma dimostra di essere troppo grande per essere salvata, ma anche troppo malridotta per sopravvivere. Il 16 gennaio 2009 Citigroup annuncia che nel 2008 le perdite sono arrivate quasi a 19 miliardi di dollari e certifica la fine del modello di “supermarket bancario” (cioè capace di offrire tutti i servizi, dai conti correnti agli hedge fund) che l’ha resa famosa. Crea una good company, Citicorp, mentre il Tesoro e la Fed si impegnano a garantire i 301 miliardi dei suoi titoli tossici parcheggiati nella pattumiera Citi Holding. Ma Rubin non può più offrire i suoi consigli (o non può più fare danni, a seconda dei punti di vista), perché ha presentato le dimissioni il 9 gennaio» (Stefano Feltri, “Il Riformista” 25/1/2009).