Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  agosto 18 Mercoledì calendario

In Irlanda con lui, nascosto nel suo aereo di Stato - Quando Ezio Mauro, allora condirettore della Stampa, mi chiese di andare a vedere «che cos’altro avrebbe combinato quel matto di Cossiga», io partii per Gela molto riluttante

In Irlanda con lui, nascosto nel suo aereo di Stato - Quando Ezio Mauro, allora condirettore della Stampa, mi chiese di andare a vedere «che cos’altro avrebbe combinato quel matto di Cossiga», io partii per Gela molto riluttante. Si inaugurava l’anno giudiziario, era il gennaio del 1991 e il giorno prima Giorgio Bocca aveva scritto un violento articolo sullo scandalo della Uno Bianca attaccando l’Arma dei Carabinieri. Andai ad accalcarmi con la massa dei giornalisti in attesa del Presidente della Repubblica, che non avevo mai incontrato prima, ignaro del fatto che la sera precedente fosse andata in onda una mia intervista in cui raccontavo che mia figlia Sabina aveva deciso di fare l’attrice teatrale. Cossiga arrivò, ruppe i cordoni, puntò su di me, mi afferrò per un braccio e mi portò via dicendomi: «Non sapevo che sua figlia facesse l’attrice teatrale». La rottura delle regole e dei protocolli mi costò la giacca che fu squarciata dal furibondo sindaco di Gela che si vide estromesso dal suo posto di accompagnatore. Cossiga chiacchierava con me amabilmente e quando arrivammo nel punto in cui era previsto il suo intervento, mi trovai appiccicato alla sua schiena, sicché potevo vedere come si muovevano i suoi radi capelli mentre pronunciava una orazione durissima in difesa dei carabinieri e contro Bocca. Era indignato, era arrabbiato, ma mi sembrava assolutamente compos sui, sano di mente, e prendevo nota sul mio calepino di questo fatto. Quando tornai in albergo scrissi l’articolo per La Stampa in cui raccontai l’accaduto e dissi che Cossiga non mi sembrava affatto matto, mentre tutti dicevano e scrivevano che era pazzo furioso e che si poneva un problema di sanità mentale della prima carica dello Stato. Due giorni dopo Cossiga mi chiamò a casa all’alba e mi tenne al telefono una buona ora impartendomi una lezione sul cattolicesimo liberale inglese e sulla rarità dei cattolici liberali. Io allora scrissi una intervista con il contenuto della nostra conversazione e gliela mandai: «Questa sarebbe l’intervista che io pubblicherei se lei mi autorizzasse a farlo». Lui mi telefonò e mi disse: non l’autorizzo, ma venga domattina al Quirinale a fare la prima colazione con noi. Chi fossero i «noi» lo scoprii il mattino dopo: c’era il fiore dell’intellighenzia di sinistra e ricordo in particolare, come a casa loro, Andrea Barbato e Sandro Curzi, che successivamente sosterrà di essere stato lui a promuovere l’amicizia fra Cossiga e me, cosa di cui dubito. Poco dopo partì l’attacco politico contro il Presidente e la vulgata voleva che Cossiga dovesse essere portato via dal Quirinale con un’ambulanza della Croce Rossa in una camicia di forza e sostituito da un comitato di saggi guidati da Eugenio Scalfari che di Cossiga era stato amicissimo e che riceveva a pranzo a casa della moglie a via Nomentana ogni giovedì, ma che adesso capeggiava il partito delle dimissioni forzate. Io mi trovai di colpo a far parte non dei «cossighiani», ma banalmente di coloro che non credevano affatto che Cossiga fosse un malato mentale, come infatti non era e come i fatti e la sua successiva biografia hanno confermato. In breve Cossiga instaurò con me un rapporto personale e attraverso questo rapporto anche una forma di amicizia con La Stampa e con l’avvocato Agnelli che poco dopo nominò senatore a vita. Cominciammo con alcune interviste e poi altre ancora e poi una intervista al giorno e Francesco, ormai eravamo diventati amici ed ero stato ammesso al tu, si faceva veramente pressante e scatenato. Io provavo talvolta un po’ di disagio perché pretendeva di dettarmi delle battute che trovavo poco opportune. Quando mi rifiutai di scrivere che Achille Occhetto era «uno zombie coi baffi», lui non batté ciglio e lo fece scrivere sul Messaggero. Combattemmo insieme una dura battaglia e ogni giorno le sue dichiarazioni al fulmicotone finivano sulle pagine di Televideo, che allora era la fonte di informazione più rapida e continua e su cui si facevano anche i titoli del giornali. Diventammo amici e lo amai molto, ho imparato le sue debolezze, le sue grandiosità, le sue scene teatrali, la sua filosofia di cattolico all’inglese con anima sarda. Posso garantire che, malgrado la vulgata e malgrado quel che lui ha sempre fatto credere, non ha mai capito molto di servizi segreti, anche se gli piaceva giocare con le macchine elettroniche, avere i telefonini d’avanguardia e ricevere spioni con cui chiacchierava con grande gusto. Mi appariva come un uomo solo, un solitario incompreso sul cui conto tutti facevano fantasie mostruose e folli. Scrissi dunque un libro per la Mondadori che si intitolava appunto «Cossiga uomo solo». Lui venne alla presentazione in via Sicilia a Roma e davanti alla folla dei giornalisti e fotografi disse che avrebbe cominciato a «picconare» il vecchio establishment e dunque usò in quell’occasione per la prima volta una parola che poi sarebbe diventata di uso comune nel linguaggio politico italiano: «picconare». La sua idea di base era che la caduta del comunismo sovietico e la fine della guerra fredda tradizionale avrebbe fatto crollare il sistema dei partiti italiani, ruotante intorno alla Dc che era secondo lui un prodotto della guerra fredda: niente guerra fredda, niente Dc, e aveva perfettamente ragione. Fu quel che accadde con Tangentopoli dove la prima Repubblica fu tradotta alla gogna e poi al patibolo davanti al popolo urlante. Sosteneva che la politica doveva sbrigarsi a trovare la soluzione al proprio dramma, ma la politica lo trattò come un pazzo furioso confermando il vecchio detto secondo cui nemo propheta in patria. Quando si dimise, poche settimane prima della scadenza naturale del suo mandato, mi nascose nel bagagliaio dell’aereo di Stato che lo avrebbe portato in Irlanda e io scrissi l’ultimo pezzo su Cossiga Presidente mentre lui mi mostrava le nuvole del mondo e il verde irlandese che ci accoglieva sotto una pioggia battente. Lo vidi entrare in una sorta di convento, un alloggio cattolico dove lui si rifugiava, e ci salutammo con un abbraccio.