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 2010  agosto 18 Mercoledì calendario

Una presidenza nata sotto un sole nero - C’è una foto di Cossiga che fa parte, a pieno titolo, della galleria della storia di questo Paese

Una presidenza nata sotto un sole nero - C’è una foto di Cossiga che fa parte, a pieno titolo, della galleria della storia di questo Paese. È in bianco e nero, sgranata come all’epoca erano le foto. Il Presidente emerito vi appare in un loden, si intravede il suo profilo aquilino in quel volto lungo e spesso, da sardo. Poche ore prima di quello scatto ha compiuto un gesto obbligato: si è dimesso da ministro degli Interni. Solo, dunque, spoglio di ogni responsabilità ufficiale, ha probabilmente trovato la forza di aprire l’ultimo, muto, dialogo con il suo amico Aldo Moro, sepolto lì, davanti a lui, in quella tomba di Torrita Tiberina. Aldo Moro, ucciso il 9 maggio 1978, dopo 55 giorni di prigionia, dalle Brigate Rosse; ma quanta colpa c’è in quella morte anche del ministro degli Interni che ha guidato il ministero durante il rapimento? Cosa pensa Cossiga su quella tomba, mentre un fotografo scatta quel fotogramma? Pensa di aver peccato? E se sì, qual è la sua colpa: impotenza, incapacità, mancanza di volontà? Il suo dolore è evidente, la sua figura piegata dentro il loden è la perfetta illustrazione fisica del peso che la morte di Aldo Moro ha fatto cadere sulle sue spalle, e su quelle del partito, la Dc. Quell’immagine coglie l’inizio della fine della Prima Repubblica. Da allora, tutte quelle domande hanno continuato ad aleggiare intorno alla poderosa personalità dell’ex ministro degli Interni poi divenuto Presidente della Repubblica. Ma non ne avremo mai risposta diretta. Sappiamo però con certezza, perché lo abbiamo vissuto allora, che nell’attizzare le polveri del terrorismo che avrebbe lacerato il Paese e portato al rapimento di Aldo Moro, Francesco Cossiga fu uno degli apprendisti stregoni. L’anno cardine di questo giudizio è il 1977, dodici mesi in cui una nuova esplosione di movimenti studenteschi naufragò nella violenza. Un breve periodo in cui una generazione di studenti fu presa in mezzo (o se preferite: si lasciò prendere in mezzo) da uno scontro che in Italia già ribolliva e da forze che non aspettavano altro che di essere evocate. I gruppi armati da una parte, le già organizzate Brigate Rosse, nuove sigle con una nuova leva di adepti, e lo Stato dall’altro: forze dell’ordine, magistrati, e su tutti Lui, il ministro degli Interni, Francesco Cossiga, il più inflessibile dei difensori delle istituzioni statali. Dietro tutti loro agivano tensioni, o forse solo suggestioni e paure, più grandi: lo scontro fra Est e Ovest, i rubli del Kgb, i dollari della Cia, l’Italia frontiera della Guerra Fredda, la inflessibilità di un Segretario di Stato americano, Kissinger, di accento e patria tedesca, già impigliato nella fine del Vietnam, e ossessionato, per quella sua teutonica origine, dal timore di una nuova espansione sovietica in Europa. Di tutto questo sapevano ben poco i ragazzi del ’77, che irruppero in scena a differenza dei loro predecessori del ’68, armati solo dell’ironia, della creatività, delle radio e delle droghe. Indiani metropolitani, si definivano, incoscienti contestatori di leggendari leader sindacali come Luciano Lama; rivoltosi distratti nei cui cortei giocavano a rimpiattino infiltrati delle Br, della nascente autonomia, e agenti del ministero dell’Interno travestiti da manifestanti. Il solito Forattini che già allora aveva una imperdonabile matita, disegnò una vignetta in cui era proprio il ministro degli Interni, con i suoi riccioli, e una maglietta a righe, a sfilare armato di pistola. Furono pochi mesi di una miscela esplosiva, dall’inizio alla primavera del ’77, in cui il corso degli eventi poteva essere indirizzato in una maniera o un’altra, e purtroppo andò per il verso peggiore. Già nell’autunno divenne evidente che quella mobilitazione giovanile aveva alla fine fatto solo da riserva d’acqua per i pesci di una nuova ondata di terrorismo. In quell’autunno nasce l’onda lunga che pochi mesi dopo, nel 1978, porta al rapimento e alla uccisione di Aldo Moro. La responsabilità di quell’assassinio rimane tutta sulle spalle di chi lo rapì e poi lo uccise. Eppure, proprio perché le cose avrebbero potuto essere diverse, nessuno poté in quegli anni dirsi totalmente innocente. Nessuno di quei giovani che sfilarono, nessuno dei dirigenti dei partiti del Paese, dal Pci alla Dc, e certamente non Cossiga, ministro degli Interni, che nei momenti più difficili scelse sempre la linea dello scontro, dello schianto. Cossiga, detto anche Kossiga. Non a caso, nel corso della sua lunga vita il Presidente ha poi scelto di rivisitare spesso quegli anni. Consapevole di aver lì gettato una radice fatale del suo destino. Contattò i terroristi in carcere e quelli fuori, divenne amico di molti ex ragazzi del movimento. Di tutti loro cercò di essere un interlocutore. In realtà ne era piuttosto distaccato studioso, come un entomologo davanti a un covo di formiche. Non c’era mai fine alle storie che ricordava e a quelle che faceva ritornare a galla, sugli Anni Settanta e il terrorismo. A casa sua, o all’Harry’s Bar di via Veneto. Ma nonostante l’amicizia offerta e la spontanea logorroica esposizione della memoria, mai, assolutamente mai, si è saputo da lui nulla che aiutasse a sciogliere i principali interrogativi sui fatti di cui fu protagonista e di cui è stata travolta la Prima Repubblica. In questo tremendamente simile al suo amico nemico di sempre Giulio Andreotti. La morte di Aldo Moro fu per Cossiga un dolore personale immenso. Che in lui si è sempre avvertito. Forse perché il fato lo ha punito con il più ironico dei regali: farlo diventare Presidente della Repubblica, esaudendo il sogno che già nel ’77 aveva ispirato la linea da salvatore della Patria. La sua è stata, dunque, una Presidenza nata sotto un sole nero. Finita, non a caso, come si sa, in mezzo alla furia distruttrice. Facendo di lui una delle poche, vere, tragiche e grandi figure della nostra storia politica.