Il fatto del giorno
di Giorgio Dell'Arti
La storia della ragazza ammazzata a Palermo per aver tentato di difendere la sorella e finita sgozzata da due coltellate: è la centesima donna uccisa dall’inizio dell’anno, e questo numero tondo (ma secondo altri è la 101esima o la 102esima) ha moltiplicato le manifestazioni d’orrore per il cosiddetto femminicidio, termine importato dal Messico dove designa le donne fatte fuori dai trafficanti di droga di Ciudad Juarez. Ieri a Palermo, in piazza Politeama, c’è stato un sit-in.
• La sorella è in ospedale, in fin di vita.
Sì, Lucia. Il giovane Samuele Caruso, 23 anni, diplomato e disoccupato da quattro anni, voleva ammazzare lei, colpevole di averlo lasciato. Lucia è grave, ma non in pericolo di vita. Non sa ancora che la sorella è morta.
• Com’è andato esattamente il delitto?
Carmela Petrucci, 17 anni, figlia di Serafino, impiegato delle poste, e di Giusi Mercurio, dipendente della Regione Sicilia, graziosa, serena, brava a scuola («aveva voti altissimi»), il sogno di diventare medico, frequentava con la sorella Lucia l’ultimo anno del liceo classico Umberto I di via Perpignano (era avanti d’un anno sin dalle elementari) ed era appena tornata da un viaggio di studio di tre settimane a Brighton. Venerdì scorso la nonna, come d’abitudine, andò a prendere le due ragazze a scuola, ma invece di entrare con loro nel portone di via Uditore 14 proseguì per fare la spesa al supermercato lasciandole davanti a casa. Lì comparve d’un tratto l’ex fidanzato di Lucia, Samuele Caruso di anni 23, che non s’era mai rassegnato alla fine della loro storia e che da settimane la perseguitava con telefonate e sms. Lucia, spaventata, citofonò al fratello Antonio gridandogli di aprire in fretta il portone ma il Caruso la raggiunse nell’androne del palazzo, tirò fuori un grosso coltello e urlando e piangendo la colpì alla testa. Carmela per difendere la sorella si mise in mezzo e…
• Lui è stato arrestato.
Sì, stava tentando di scappare, l’hanno fermato a Bagheria. Localizzato grazie al cellulare. Ha detto di essere stato colto da un raptus, ma il magistrato, Caterina Malagoli, non gli crede. Lo ha imputato di omicidio volontario premeditato, aggravato da motivi futili e abietti. In effetti, Caruso è arrivato in via Uditore con un grosso coltello che s’era portato da casa. Difficile negare una qualche premeditazione.
• Che ragionamenti si possono fare su questa storia della centesima vittima?
È un fatto che in due delitti passionali su tre lui uccide lei. Anche quando il delitto non è passionale, anche quando si arriva alla tragedia per noia, per stanchezza, per disperazione, è quasi sempre il marito o il fidanzato o l’amante che ammazza la sua compagna, e molto più di rado l’inverso. Benché in generale, da più di un secolo, i delitti siano in diminuzione (mentre i suicidi sono in aumento), questa particolare forma di violenza in cui l’assassino è un maschio e la vittima è una femmina è di nuovo in ascesa da tre anni. E non dipende da una nostra presunta arretratezza. Nel 2009 in Finlandia, Danimarca e Norvegia ci sono state in media sette donne uccise per ogni milione di cittadine. Un po’ più che in Italia: 6,57.
• Può una legge, come sento dire in giro, contribuire a modificare questa situazione?
La legge, temo, sarà condizione necessaria (cioè bisogna farla) ma non sufficiente. La responsabilità politica, in questo caso, ricade sotto il ministro Fornero, che ha già firmato la Convenzione di Istanbul per la protezione delle vittime, contro i matrimoni forzati e per una strategia della prevenzione. Ma il Parlamento è piuttosto indifferente, almeno finora, a queste tematiche. Sulle motivazioni profonde di fatti tanto atroci, citerò Francesco Bruno, il criminologo: «Una volta l’uomo dominante uccideva la donna di cui si voleva liberare. Ora la uccide perché ne è dipendente. Non riesce a essere lasciato». Quelli del Telefono Rosa, esaminando un campione di mille e cinquecento telefonate, hanno scoperto che il novanta per cento delle donne che chiamano non se la sentono di denunciare l’uomo che le picchia. Mariella Gramaglia spiega che questa resistenza, oltre a essere motivata da paura, è anche conseguenza della lunghezza del processo «una media di cinque anni, e nel frattempo la protezione per loro e per i loro bambini non è tale da rassicurarle». La legge Carfagna sullo stalking, che potrebbe aiutare a evitare il delitto, prevede l’ammonimento e qualche volta il carcere. Massimo Lattanzi, coordinatore dell’Osservatorio sullo stalking, pensa che sia poco: «C’è bisogno di affiancare un percorso di risocializzazione, altrimenti continueremo a vedere casi di questo tipo. In Spagna hanno adottato un protocollo simile e si è registrata una riduzione del 50%». Gramaglia: «Qualcosa potrebbe essere cambiato. I centri di sostegno contro la violenza potrebbero essere rafforzati e infittiti».
[Giorgio Dell’Arti, La Gazzetta dello Sport 21 ottobre 2012[
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