Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  ottobre 21 Domenica calendario

UN USO INESTIRPABILE, DA LEGALIZZARE

Fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, lo sport moderno era — o si pretendeva che fosse — inteso come affare di gentlemen. Così, in fondo, l’intendevano gli aristocratici inglesi che lo inventarono: vinca il migliore e festeggiamo insieme quando ha tagliato il traguardo. Non che modi per migliorare le performance non ci fossero: dalla coca degli Inca ai funghi dei guerrieri nordici, gli uomini hanno sempre cercato di incrementare le proprie prestazioni fisiche con le sostanze più diverse. Il problema si pose una cinquantina d’anni fa, quando lo sport iniziò a diventare un’attività di rilievo sempre crescente e quando si capì che l’uso della chimica stava diffondendosi nelle competizioni. Nel 1959 scoppiò una grande polemica, che pose il tema all’attenzione del mondo quando due scienziati dell’Università di Harvard dimostrarono che l’uso di anfetamine migliorava i risultati dei nuotatori sulle brevi distanze: non di moltissimo, ma quanto bastava a fare la differenza tra il vincere e il perdere.
Così, nel 1964, il Comitato olimpico internazionale mise al bando l’uso di farmaci e iniziò a effettuare controlli sugli atleti. È a quel punto che inizia la battaglia tra un pezzo di scienza al servizio degli atleti che intendono violare le regole e un altro pezzo di scienza al servizio delle autorità che cercano di scoprirli e di prevenirli. Da allora le cose sono andate così: prima l’etanolo che abbassa la frequenza delle pulsazioni cardiache, scoperto in poco tempo; poi le anfetamine: rintracciate con i test; gli steroidi che hanno l’effetto del testosterone e di altri ormoni: individuati; il testosterone naturale, non più chimico: scoperto l’imbroglio, dopo anni, nel 1984; i diuretici: trovati e banditi; l’ormai mitica Epo degli anni Novanta e nuove forme successive di Epo per produrre più globuli rossi: rintracciate; le trasfusioni di sangue e poi di sangue proprio (congelato in precedenza) per non essere scoperti: smascherate anche queste; infine (ma non finirà mai) la manipolazione genetica attraverso virus. Tutto questo per dire che nello sport di oggi la ricerca della performance con ogni mezzo non si ferma e non si fermerà. Combatterla è legittimo, ma soprattutto per salvarsi la coscienza: il doping nello sport non verrà eliminato, come non lo è stato finora, dalle campagne moralizzatrici e nemmeno dai test scientifici più avanzati. «Ultimamente tutti i ciclisti che ho interrogato hanno detto che tutti si dopano», disse nel 2010 il capo della Procura antidoping del Coni, Ettore Torri, mentre sosteneva che il fenomeno non verrà «estirpato» e proponeva la sua legalizzazione.
In effetti, l’uso di farmaci che migliorano le prestazioni atletiche andrebbe consentito. Chi lo rifiuta, di solito lo fa sulla base di tre argomentazioni: fa male agli atleti; dà un vantaggio illegittimo a chi lo usa rispetto a chi non lo tocca; rovina il valore sociale dello sport. La prima critica è poco consistente: è evidente che, se fosse legittimata, la scienza sarebbe in grado di produrre sostanze ancora migliori e meno dannose per l’organismo di quelle che produce oggi nella clandestinità. Si tratterebbe di vietare i farmaci che fanno indiscutibilmente male, missione certo più facile per chi controlla, ma non certo per esempio l’Epo, non più pericolosa di un intervento a gamba tesa in una gara di calcio. E semmai stabilire un limite di età rigido per l’uso di qualsiasi farmaco. Di certo, sarebbe molto più facile e sicuro effettuare trattamenti e dosaggi corretti in un ambiente aperto che non nei bagni di un albergo. Secondo, sostenere che il doping falsifichi la lealtà della competizione è vero, ma è vero proprio nella situazione attuale di divieto, dove chi ha più mezzi, più denaro, ha accesso ai farmaci migliori, meno pericolosi e meno rintracciabili ai controlli. I più poveri guardano. È il divieto a creare la disparità. Un mercato aperto e livellato, invece, offrirebbe opportunità simili a tutti. E probabilmente creerebbe concorrenza nella ricerca farmaceutica, con costi più bassi e vantaggi per la qualità.
Infine, sport e società. Ma è proprio perché lo sport è il riflesso della società in cui si svolge — come quello dei gentlemen lo era all’apice dell’impero britannico — che non ci si può illudere di isolarlo dalle scoperte scientifiche e — piaccia o no — dalla domanda di spettacolo. La perfezione forse sarebbe tutti a bistecca e pastasciutta. Ma sappiamo che non sarà mai più così. Meglio cercare il second best.
Danilo Taino