Carlo Vulpio, la Lettura (Corriere della Sera) 21/10/2012, 21 ottobre 2012
IL DIVORZIO E’ LEGGE: DOPO 18 ORE (E 4 SVENUTI)
Oggi il problema è opposto rispetto a quello di quarant’anni fa. Allora, la Democrazia cristiana di Amintore Fanfani, il Movimento sociale italiano di Giorgio Almirante, il Partito monarchico di Alfredo Covelli, i Comitati civici del professor Gabrio Lombardi, e anche papa Paolo VI, credevano che il divorzio fosse il «male assoluto». Ma oggi il problema è inverso, e se lo pone soprattutto la Chiesa cattolica, che si domanda come non escludere e anzi recuperare i divorziati — anche quelli che si sono risposati —, non come impedir loro a tutti i costi di ricorrere allo scioglimento del matrimonio, il «malefico» divorzio. Di più, la Chiesa sembra voler guardare ancora più lontano, se lascia che un teologo come Bruno Forte, vescovo di Chieti-Vasto, vada in giro per università a parlare della «drammatica situazione dei figli dei divorziati che si sono risposati» e ribadisca ogni volta «la necessità di avviare una riflessione sui modi e i tempi necessari per il riconoscimento della nullità del vincolo matrimoniale».
Oggi, i clericali più accaniti possono pure gridare allo scandalo, considerare questa via più esiziale della breccia di Porta Pia e rispolverare accuse di «protestantizzazione» della Chiesa di Roma (magari facendo notare di sfuggita che il più attivo in tema di divorzio è proprio il clero tedesco e che, guarda caso, anche Martin Lutero era tedesco...), ma ormai una nuova strada è stata tracciata.
Quarant’anni fa, no: non era così. Era davvero un altro mondo quello in cui — la notte fra il 30 novembre e il 1° dicembre del 1970 — il Parlamento italiano, dopo una seduta lunga diciotto ore in cui quattro deputati si sentirono male e svennero, approvava con 325 voti a favore e 283 contrari (164 sì e 150 no al Senato) la legge numero 898 istitutiva del divorzio, intitolata «Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio» e più nota come legge Fortuna-Baslini, dai nomi di Loris Fortuna (socialista e poi anche radicale) e Antonio Baslini (liberale) che unirono in un solo testo i rispettivi progetti di legge. In quel mondo così diverso, quel tema così scabroso — il divorzio, nientedimeno — stava viaggiando già da cinque anni su un treno chiamato Lid, Lega italiana per il divorzio, fondata nel 1965 e guidata dallo stesso Fortuna e da Marco Pannella, il quale per il divorzio si batterà da par suo anche durante il referendum del 1974, nonostante l’oscuramento subìto dalla Rai, che non lo inviterà a nessuna delle tribune referendarie con la scusa che non è il segretario di un partito presente in Parlamento.
Pannella e i radicali in particolare, assieme a socialisti, liberali e repubblicani, in quegli anni furono additati dal mondo politico cattolico come i nemici della famiglia, quelli che volevano distruggere il nucleo primario e fondamentale della società, e questo diciamo pure che era abbastanza normale. Meno normali erano invece gli attacchi e le scomuniche che dovettero subire dal Partito comunista italiano prima, durante e dopo l’approvazione della legge. I comunisti, infatti, erano tiepidi nei confronti dell’introduzione del divorzio in Italia perché, dicevano sempre, «ben altri» erano i problemi e gli obiettivi di «un grande partito» come il Pci. E quando non erano tiepidi, erano feroci. Aldo Tortorella, uno dei massimi dirigenti del partito, che allora di fatto era già guidato da Enrico Berlinguer a causa della grave malattia che colpì Luigi Longo, diede dei divorzisti questa amena definizione: «Sono servi dei padroni, vogliono ostacolare la politica dell’incontro e del dialogo con i cattolici». Naturalmente, dopo la vittoria dei No al referendum del 1974, il primo della storia repubblicana, voluto dal fronte antidivorzista, «l’Unità» titolerà: «Grande vittoria della libertà».
La legge 898 tuttavia fu votata — sebbene per motivi di opportunità politica — anche dai comunisti. Ed era una legge, si sfiancavano a spiegare i suoi sostenitori, che non incitava a divorziare, ma era soltanto la medicina necessaria a cui ricorrere quando la malattia era già insorta.
Nella sua versione originaria, per esempio, la legge prevedeva che la sentenza di divorzio potesse essere pronunciata solo dopo cinque anni di separazione giudiziale, che diventavano sei in caso di opposizione dell’altro coniuge e addirittura sette in caso di separazione pronunciata per colpa esclusiva del coniuge che richiedeva il divorzio. Cautele che non bastarono a dissuadere il fronte referendario antidivorzista, che provò a chiamare a raccolta il popolo in nome della salvaguardia della integrità della famiglia, ma venne sconfitto. Il 59,3 per cento degli italiani che andarono a votare disse di no all’abrogazione della legge che istituiva e regolava il divorzio. Ma fu un no dell’Italia centro-settentrionale e, grande sorpresa, della Sicilia (50,5 per cento di no), cioè proprio la regione più citata nei comizi e nei dibattiti in quanto patria per eccellenza del «delitto d’onore», ovvero della più nefasta conseguenza dell’adulterio, che era la prima causa di fallimento del matrimonio e quindi la patologia più grave a cui il divorzio («meglio una separazione di un omicidio») doveva rimediare. Tutte le altre regioni del Sud e, altra sorpresa, il Trentino (50,6 per cento di sì) votarono compatte per l’abolizione della legge Fortuna-Baslini. L’Italia però non era più a metà del guado, con l’introduzione del divorzio scoprì d’essere diventata un Paese più adulto. «Siamo cresciuti, siamo cambiati. Senza i promotori del referendum non lo avremmo saputo. Bisogna ringraziarli», scrisse ironica ed emozionata Oriana Fallaci.
E infatti siamo così cambiati che oggi la prima causa di divorzio non è nemmeno più l’adulterio, ma la noia, assieme all’incomunicabilità e all’incompatibilità di carattere. Siamo così cambiati che più dell’aumento dei divorzi (10.618 nel 1975, 54.456 nel 2009) colpisce la diminuzione del numero dei matrimoni (419 mila nel 1972, 210 mila nel 2010). Non siamo cambiati invece nella capacità di rendere difficile e persino odioso l’esercizio dei diritti. Così accade che per ottenere la sentenza di divorzio, che oggi dovrebbe arrivare dopo tre anni dalla pronuncia di separazione, e nonostante 4 divorzi su 5 siano consensuali, si impieghino «normalmente» dai sette ai dieci anni, con costi che riducono sul lastrico molti coniugi e costi umani che li avvelenano e li tengono impegnati in una guerra permanente che nemmeno La guerra dei Roses, il celebre film di Danny De Vito con Kathleen Turner e Michael Douglas. Il risultato è quello che Paolo Guzzanti nella prefazione al libro I perplessi sposi di Gian Ettore Gassani (Aliberti) ha definito «turismo divorzile»: per far prima e meglio si stabilisce per poco tempo la residenza all’estero, ad esempio in Francia, e si divorzia lì, facendosi poi trascrivere la sentenza in Italia.
Un altro calvario che, riconoscono molti giuristi, richiederebbe un aggiornamento della legge 898 è quello degli obblighi di assistenza economica tra i coniugi anche dopo il divorzio, mentre sull’affidamento dei figli si entra in una landa desolata che meriterebbe un discorso a parte.
Siamo cambiati, non c’è dubbio. Oggi se Domenico Modugno cantasse di nuovo L’anniversario verrebbe applaudito da tutti. «Amore senza data, senza carta bollata/ Ti sposo ogni mattina e tu rispondi sempre sì/ Noi non giuriamo niente, perché non c’è bisogno/ Con un contratto non si lega un sogno...». La canzone era a sostegno della legge sul divorzio, ma potrebbe andare benissimo anche per il Family Day e il Gay Pride.
Carlo Vulpio