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 2012  ottobre 21 Domenica calendario

BIMBO TRAVOLTO 28 ANNI FA, IL GIUDICE DECIDERA’ NEL 2015

La provinciale maledetta da Taurianova a Rosarno è sempre uguale: radi ciuffi d’erba al posto del marciapiede e niente guardrail. E così la cucina, dove mamma Nicolina lo aspetta da ventotto anni per preparargli una cena che lui non mangerà mai: stessa formica e stesso legno, stesse piastrelle chiare decorate con grappoli d’uva.
Perché il tempo s’è fermato nel mondo senza giustizia di Angelo Cirimele, ammazzato a tre anni da un tassista che aveva troppa fretta di entrare a Rosarno con la sua Fiat 125 e sbandò, falciandolo mentre era assorto a giocare al bordo della strada e sbattendolo a venti metri dal portone di casa. C’è una foto tenerissima in tinello, che racconta Angelo in quei giorni: gli occhi scuri e vispi, un pupazzetto tra le mani grassottelle, il maglioncino a righe. Così dev’essere uscito quel pomeriggio del 4 maggio 1984, l’ultimo pomeriggio della sua vita.
Il tassista venne assolto nel procedimento penale ma condannato a pagare 80 milioni di vecchie lire in sede civile. Fece appello. E, ora, la prossima udienza del processo da cui la famiglia Cirimele dovrebbe venire risarcita — se mai si può risarcire la morte d’un bambino — è fissata, per la precisazione delle conclusioni, il 26 marzo 2015 davanti alla corte d’appello di Reggio Calabria: a quasi trentuno anni dai fatti. Questa sfasatura temporale è il segno dell’azzeramento di qualsiasi speranza di riconciliazione, eccede abbondantemente i tempi della giustizia civile italiana, già inverosimili con i suoi sette, otto anni di media per arrivare a una sentenza e con cinque milioni e mezzo di cause arretrate. La piccola storia di Angelo può servire a scuotere dal torpore un sistema paralizzato che, spiegò Mario Draghi, costa all’Italia l’1 per cento del suo Prodotto interno lordo.
«Noi non abbiamo visto un soldo, finora, ma quello che ci importa davvero non sono i soldi, è il segno di un risarcimento morale. Soprattutto mia madre ne ha diritto», ci spiega Luigi, uno dei quattro fratelli di Angelo, che ha lasciato il paese e se n’è andato in Piemonte, ad Alba, a faticare in una bottega da parrucchiere: «Mandai un anno e mezzo fa una mail ad Alfano, allora ministro della Giustizia. Nemmeno mi ha risposto, nessuno ci ha mai risposto». Luigi è il più combattivo, al Nord ha imparato che non necessariamente bisogna chinare la testa davanti ai soprusi, e l’altro giorno ha raccontato tutta la storia a Calabria Ora. Che nel disastro dei nostri tribunali civili ci possa essere una specificità calabrese è una teoria condivisa da Piero Sansonetti, direttore del giornale: «La Calabria tra tutte le regioni italiane è sempre quella che sta peggio. Comunque questa è la prova che la giustizia da noi non è al servizio dei cittadini, ma semmai dello spettacolo».
In effetti è probabile che adesso, quando la storia di Angelo approderà in qualche talk show dopo essere transitata nel circuito della stampa nazionale, i Cirimele avranno qualche opportunità in più. Sarà in fondo un’ulteriore beffa, la prova che anche i drammi da noi devono virare in commedia dell’arte per trovare un degno epilogo. Luigi ha episodi terribili e grotteschi da raccontare: «Quattordici anni fa, volendo portare il caso anche a un avvocato di Alba, accompagnai mia madre al tribunale di Reggio Calabria per estrarre copia del fascicolo di mio fratello. Beh, dentro il fascicolo di Angelo c’era un altro fascicolo di una signora che aveva un contenzioso con l’Inps. Sapemmo poi che quella signora si vedeva rinviare di volta in volta le udienze perché il suo fascicolo non si trovava più...». Un sospiro profondo: «Caro mio, qui si ride per non piangere. Una volta è caduto il governo, una volta hanno fatto un maxiprocesso ai mafiosi, una volta si sono allagate le stanze coi fascicoli, insomma, ce n’è sempre stata una per spostarci le udienze e mi sa che anche il nostro avvocato se l’è presa un po’ troppo comoda».
Ogni distretto giudiziario ha aneddoti che si tramandano. A Palermo, per dire, molti legali citano come caso limite la famosa «eredità Tagliavia», possedimenti per cento miliardi di vecchie lire, contesi dal 1965 in una catena di processi l’ultimo dei quali, per la proprietà di un edificio storico, è iniziato nell’87. La guerra di successione per un palazzotto di Cardito, vicino Napoli, è cominciata nel 1976: dopo cento udienze, sette giudizi, 110 mila euro di onorari per gli avvocati, sono saltate fuori due nuove pretendenti, due vecchie zie, e tutto si è ingarbugliato daccapo.
«Ma questa è una faccenda completamente diversa», sostiene Stefano Rodotà, indignato da giurista e doppiamente indignato da calabrese: «Questa non è una questione di eredità o una causa condominiale, in cui i ritardi sono comunque inaccettabili. Quando si è davanti a una tragedia simile, questo protrarsi nel tempo è una violazione del rispetto delle persone, va oltre il senso di umanità. Non sarebbe sbagliato se il Csm dedicasse un po’ di attenzione alla vicenda, perché il distacco della gente dalle istituzioni si alimenta anche così, non solo con la Casta e con i Fiorito di turno». La latitanza della giustizia civile in regioni ad alta densità criminale come la Calabria, apre ulteriormente la porta al circuito dell’antistato: «Conosco molti episodi in cui chi vuole recuperare un credito non fa più causa ma si rivolge alla ’ndrangheta, risparmiando tempo e danaro», dice Rodotà: «Ovvio che entra in un percorso "istituzionale" diverso da quello dello Stato. Al Sud i pericoli sono enormi».
Nella piccola casa di Rosarno, le grandi questioni del processo ammalato restano però fuori dalla porta dei sentimenti. L’idea di diventare un caso esemplare non consola mai chi quel caso lo vive sulla pelle. Angelo adesso sarebbe un giovanotto di trentuno anni, non un rimpianto nella cornice d’argento d’una foto. Tante mattine mamma Nicolina si trascina fino al bordo della strada, fino alla cunetta dove tutto è accaduto: «Mi sembra di impazzire», ripete spesso. Tutte le sere chiede scusa al suo piccolo prima di spegnere la lampada del comodino, «figghiu perdonami se stutu a luci». Lasciarlo nell’oscurità deve sembrarle un tradimento. Perché ai bambini imprigionati nel tempo che non scorre, la paura del buio non passa mai.
Goffredo Buccini