Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  ottobre 21 Domenica calendario

IL PARTITO KHOMEINISTA DEGLI INTELLETTUALI

Scrive Salman Rushdie nel suo fluviale romanzo autobiografico Joseph Anton: «Una società libera non è placida, ma tumultuosa, e la libertà risuona nel vociante bazar delle opinioni contrastanti». Per via dei Versi satanici i nemici della società libera, quelli che considerano la libertà delle opinioni contrastanti un’oscenità e gli uomini liberi dei depravati da annientare, ne condannarono a morte l’autore. Ma trovarono dei docili alleati in molti intellettuali, nelle diplomazie complici, nei governi impauriti, nelle religioni per una volta unite nel mettere al bando chi, secondo una fatwa, avrebbe offeso la fede. Altri intellettuali, scrittori, artisti, con appartenenze che in tempi normali si chiamerebbero «trasversali», spesso divisi da feroci contrasti ideologici, trovarono invece nella difesa di Rushdie un terreno comune, un linguaggio simile per la tutela di un principio elementare: la libertà d’espressione.
«Chi si schiera contro di noi tempra i nostri nervi e affina le nostre capacità», scrive Rushdie citando un grande liberalconservatore come Edmund Burke. Che continuava: «Il nostro rivale è il nostro braccio destro. Solo chi è debole e autoritario si sottrae agli avversari, li ricopre di insulti e a volte desidera far loro del male». Con la condanna a morte di Rushdie i deboli e gli autoritari si scatenarono. Fecero roghi con il suo libro, incendiarono librerie, impiccarono in effigie l’infedele, assaltarono i simboli dell’Occidente, braccarono la famiglia di uno scrittore, sgozzarono il traduttore giapponese di Versi satanici. Massacrarono quello norvegese e pugnalarono, per fortuna non riuscendo ad ucciderlo, quello italiano. Joseph Anton, di cui ha scritto proprio su queste pagine Alessandro Piperno mettendone in evidenza il valore letterario, non è solo un romanzo, è anche una ricostruzione dettagliata di una grande guerra culturale che si accese nel 1989, l’anno della caduta del Muro di Berlino. È il resoconto meticoloso, senza dimenticare neanche un nome, di un catalogo di viltà e di atti di coraggio, una battaglia che spaccò in due la comunità politica e intellettuale.
Un resoconto pieno di sorprese, spesso amare. Mentre Rushdie doveva nascondersi, e anche il suo bambino di nove anni entrava in un incubo terribile, lo storico Hugh Trevor-Roper, in passato «autenticatore di sedicenti "diari di Hitler" che si erano rivelati un clamoroso falso», dichiarò: «Non verserei una lacrima se qualche musulmano inglese lo aspettasse in un angolo buio per cercare di insegnargli le buone maniere. Se poi lo costringesse anche a tenere a bada la sua penna, la società ne trarrebbe un gran beneficio e la letteratura non ne soffrirebbe sicuramente». John Le Carré, uno scrittore che Rushdie aveva amato per La talpa e La spia che venne dal freddo, scrisse: «Credo che nessuno di noi abbia il diritto di essere impunemente offensivo nei riguardi delle grandi religioni. È mia opinione che Rushdie non abbia niente da dimostrare se non la sua insensibilità».
Il partito di chi attaccava lo scrittore braccato da uno stuolo di potenziali assassini, che volevano guadagnarsi il paradiso spedendo all’inferno uno scrittore «blasfemo» (senza aver neanche letto il suo libro, ovviamente), faceva suo il più trito dei luoghi comuni della pavidità conformista: «Se l’è andata a cercare». Margaret Thatcher si presentò in televisione dichiarando che capiva perché i musulmani si erano sentiti insultati e che simpatizzava con loro. Lo scrittore Roald Dahl: «Rushdie è un pericoloso opportunista». L’arcivescovo di Canterbury, Robert Runcie, disse che «capiva i sentimenti dei musulmani». Il rabbino capo Immanuel Jakobovits propose la bizzarra equivalenza tra uno scrittore e chi lo aveva condannato a morte per ciò che aveva scritto: «Tanto il signor Rushdie quanto l’ayatollah hanno abusato della loro libertà di parola». «Chiudete i ranghi con un’alacrità e uno zelo impressionanti», disse Rushdie ai rappresentanti, una volta tanto uniti, delle tre religioni monoteiste.
Persino un poeta che aveva conosciuto la persecuzione comunista, la galera e l’esilio, Josif Brodskij, ebbe nei confronti di Rushdie solo parole di freddezza e di distacco: avrebbe potuto evitare di «offendere i musulmani». E intanto nelle piazze islamiche si inveiva contro «la creatura cornuta sui cartelli dei manifestanti innalzati lungo le strade, l’uomo impiccato con la lingua rossa sporgente che compariva nei loro rudimentali disegni: "Impiccate Satan Rushdie"». E intanto Cat Stevens, «convertitosi all’Islam e reincarnatosi nel "leader" Yusuf Islam, si presentò davanti alle telecamere augurandosi la sua morte e dichiarando che sarebbe stato disposto a telefonare agli squadroni d’assalto, se solo avesse saputo dove si trovava quel blasfemo».

Era una guerra culturale globale, che naturalmente coinvolse l’Italia e molti suoi rappresentanti, prima e dopo l’89. Scrive Rushdie: «In Italia si comportarono da eroi. La fatwa fu diffusa due giorni prima della data di pubblicazione prevista dalla Mondadori. I proprietari, ossia la Fininvest di Silvio Berlusconi, la Cir di Carlo De Benedetti e gli eredi del fondatore» mostrarono «molte esitazioni e tentennamenti e avevano seri dubbi sull’opportunità di pubblicare il libro. La determinazione del direttore editoriale Giancarlo Bonacina e del suo staff ebbe però il sopravvento e il romanzo uscì come previsto». E poi l’episodio più terribile: Ettore Capriolo, il traduttore dell’edizione italiana di Versi satanici, «ricevette a casa la visita di un "iraniano"» che gli «saltò addosso prendendolo a calci e pugnalandolo più volte. Quindi era fuggito, lasciando Capriolo sanguinante sul pavimento». Rushdie scrisse a Capriolo «per esprimergli il suo dolore e la speranza di un pieno recupero». Non ebbe mai risposta. In seguito, seppe dai suoi editori italiani che «Capriolo era maldisposto nei suoi confronti e che si rifiutava di lavorare ancora su qualsiasi suo libro a venire».
Per fortuna dall’Italia vennero segnali più incoraggianti: «Gli fu offerto un posto tra i candidati al Parlamento europeo dei partiti italiani di centro, il Partito repubblicano, il Partito liberale e il Partito radicale di tale Marco Pannella, che lo contattò personalmente attraverso l’ufficio di Paddy Ashdown, leader dei liberaldemocratici britannici». Molti sconsigliarono Rushdie, a cominciare da Scotland Yard, che gli prospettò un futuro da «bersaglio facile a Strasburgo». Non se ne fece niente.
Ammirevole la reazione di Umberto Eco, incrociato a un incontro pubblico a Parigi, dove Rushdie giunse scortatissimo e blindato: aveva appena stroncato Il pendolo di Foucault nella recensione più negativa che avesse mai scritto in vita sua. Eco piombò verso di lui e si comportò con un’eleganza senza pari. Allargando le braccia esclamò: «"Rushdie! Sono quel cazzaro di Eco!". E fu l’inizio di un’ottima relazione». E con Mario Vargas Llosa il sodalizio divenne un singolare terzetto.

Molti intellettuali hanno combattuto una battaglia coraggiosa a fianco di Rushdie. Altri si sono comportati nel modo peggiore. Nadine Gordimer fece di tutto per salvare una visita in Sudafrica di Rushdie, ma la «progressista» e «antirazzista» Confederazione degli scrittori sudafricani fece piombare nella disperazione la temeraria Gordimer, ingiungendo all’autore dei Versi satanici di non avvicinarsi per via del suo libro «disgustoso non soltanto per i musulmani». Coraggio e pavidità dividevano in due il mondo culturale mondiale. Negli Stati Uniti Susan Sontag, Don DeLillo e Norman Mailer promossero letture pubbliche in favore di Rushdie ma «Arthur Miller aveva trovato una scusa, sostenendo che il suo ebraismo avrebbe potuto giocare un ruolo controproducente». Da posizioni ideologiche opposte Günter Grass, Bernard-Henri Lévy e Harold Pinter si batterono come leoni per la causa della libertà d’espressione.
Ma la femminista Germaine Greer rese pubblica la sua ostilità per Rushdie. Il Premio Nobel egiziano Nagib Mahfuz, che già aveva ricevuto minacce e intimidazioni dagli integralisti per le sue posizioni eretiche, si schierò con i carnefici: «Rushdie non ha il diritto di insultare nessuno, in particolar modo un profeta o qualsiasi cosa venga considerata sacra». I governi erano impauriti dalle dichiarazioni bellicose di Khamenei in Iran: «La freccia nera del castigo sta per conficcarsi nel cuore di questo blasfemo bastardo». Ma per fortuna Václav Havel, uno degli eroi del dissenso del Ventesimo secolo, volle mostrare la sua solidarietà e Tony Blair, spinto dalla moglie Cherie, ribaltò la linea filokhomeinista del governo conservatore di Londra. Il «Daily Telegraph» e l’«Independent» bombardarono Rushdie con una campagna violentemente ostile e Murdoch non risparmiò accuse avvelenate allo scrittore. Gli eredi di Colette presero le distanze dalla giuria che in Svizzera aveva conferito il Premio Colette a Rushdie. Ma assieme a Rushdie venne combattuta una battaglia di libertà da un manipolo di scrittori: oltre quelli citati, gli amici Martin Amis, Ian McEwan, Christopher Hitchens. Contro il principe Carlo, che abbracciò la causa dei fondamentalisti islamici che volevano uccidere lo scrittore, McEwan dichiarò: «La protezione del principe Carlo costa molto di più di quella di Rushdie, e Sua Altezza non ha mai scritto nulla di interessante». L’ironia contro il terrore: fu una grande e appassionante guerra culturale.
Pierluigi Battista