Roberto I. Zanini, Avvenire 21/10/2012, 21 ottobre 2012
A TAVOLA CON L’ANTICA ROMA
Dell’antichità romana pensiamo di conoscere molte cose. Ne conosciamo i grandi personaggi, la lingua, la storia, l’immenso patrimonio artistico, la poesia, la letteratura. Le ricerche archeologiche e gli scritti dell’epoca ci hanno fatto conoscere le abitudini quotidiane. Delle metropoli romane possiamo immaginare i colori e i suoni. Molto poco, però, conosciamo degli odori. In particolare di quelli alimentari, che in una città come Roma aleggiavano per fori, templi, terme e vicoli dalle prime ore dell’alba fino a notte avanzata, provenienti dalle cucine della tabernae e dai banchi degli ambulanti che, racconta Marziale negli Epigrammi , «avevano sottratto la città intera», così che «le strade sembravano sentieri». Qualche decennio prima Seneca parla di bancarelle, lixae, in cui si vendono biscotti, bibite, frutta secca (i romani erano ghiotti di pistacchi, introdotti dal 37 a.C.), frutta fresca, e cibi caldi arrostiti o bolliti (come luganeghe, interiora e pollame), conditi con salse dai sapori assai difficili per i palati contemporanei. Una pittura di Pompei presenta un giovane che acquista una porzione calda di cappone da un ambulante. In un’altra celebre pittura della città vesuviana è rappresentata una rissa al di fuori dell’anfiteatro, fra le tende e i carretti dei venditori take away dell’epoca. Odori e sapori che rivivono, corredati da esaustivi riferimenti storici, oltre che da ricette autentiche, nel volume Ars culinaria (Donzelli, pagine 444, euro 24,00) della filologa Antonietta Dosi e dell’archeologa Giuseppina Pisani Sartorio. Un po’ testo di storia, un po’ libro di cucina, riesce a rendere evidente non solo come mangiavano i romani, ma soprattutto come le ricette di duemila anni fa sopravvivano tutt’oggi, con alcune modifiche, nelle nostre cucine regionali e in molte dell’Oriente, Vicino ed Estremo. Ricette antiche poste a fronte delle loro derivate moderne. Con la possibilità, che è quel che ancor più incuriosisce, di poterle sperimentare nelle due maniere, scoprendo che la fricassea ha almeno due millenni e che il foie gras, con relativo paté, non lo hanno inventato i francesi, ma i romani, che nella versione più sofisticata lo chiamavano ficatum , perché tratto da oche ingrassate con fichi. Naturalmente necessari alcuni adattamenti. Sia per l’introvabilità di certi ingredienti, soprattutto erbe selvatiche, spezie e aromi, che i romani utilizzavano in gran numero, facendoli venire da ogni angolo del mondo; sia per l’onnipresente prescrizione del garum, nella cottura o nel condimento finale. Una salsa a base di interiora di pesce crudo, salato e speziato, che spesso doveva risultare mefitica, anche se ne esisteva una versione per commensali ricchi e raffinati, che veniva realizzata in maniera non troppo dissimile dall’attuale salagione delle acciughe. Qualcosa che somiglia al garum si trova in alcune conserve di piccoli pesci, tipiche delle popolazioni dei delta dell’Estremo Oriente, come quello del Mekong, ma anche nella più raffinata e appetitosa ’sardella’ calabrese, sebbene ricca di peperoncino, pianta che i romani non potevano certamente conoscere.
Fonte primaria di queste antiche ricette è il De re coquinaria attribuito ad Apicio, forse il più celebre fra i mangioni dell’antichità e l’unico, di cui ci sia giunta notizia, che abbia codificato le conoscenze culinarie dell’epoca in uno specifico trattato. Vissuto in epoca augustea, divenne più conosciuto nei secoli del nostro Artusi, tanto che i cuochi latini, che prima venivano denominati magirii (dal greco magheiroi ), cominciarono a chiamarsi apicii. Dopo di lui un egiziano di origine greche, vissuto a Roma intorno al 200 d.C., tale Ateneo, ha inserito numerose ricette in un trattato in 15 volumi, i Deipnosofisti (I sapienti a banchetto) in cui sono gli stessi filosofi a parlare di cucina. E di cucina parlano nelle loro opere (citate con ampi riferimenti) anche i grandi come Cicerone, Orazio, Virgilio, Petronio, Giovenale, Catullo, Plinio il Vecchio, Plinio il Giovane, Catone il Censore. Quest’ultimo nel De agri cultura, presenta numerose ricette (fra le quali quelle di una focaccia sottile che veniva arrotolata, fatta seccare e cotta come oggi si fa con la pasta), offre uno
Fspaccato delle sobrie abitudini, quasi del tutto vegetariane, dei romani dei primi secoli. Secondo Giovenale e Plinio, del resto, il grande Marco Curio Dentato, colui che sconfisse i sabini e Pirro, sarebbe unicamente vissuto di rape, legumi e verdure del suo orto.
In quell’epoca la carne veniva utilizzata quasi esclusivamente nei grandi festeggiamenti in onore degli dei, anche se alla dea Cerere, nei cosiddetti cerealia, si offrivano farro e frumenti: da qui il nome poi loro attribuito di cereali. Anche il verbo ’immolare’, relativo ai sacrifici animali sugli altari degli dei, deriva dall’abitudine ’alimentare’ di cospargere la ’vittima’ di un tritello di farro e sale passati alla mola (mola salsa), qualcosa di simile alla moderna impanatura. Ben diversa dall’alimentazione di Curio Dentato quella dell’imperatore Massimino (235-238 d.C.), che si vantava di mangiare soltanto carne al punto che, stando a Giulio Capitolino, ne avrebbe ingerita ben 13 chili in un solo giorno. Ghiotto di frutta l’imperatore Albino (193-197), che pare giungesse a mangiare anche dieci meloni a pasto. Marziale scrive con ironia del suo avaro padrone di casa, Cecilio, che imponeva al cuoco di preparare per i suoi convitati interi pranzi a base di economica zucca per tutte le portate, dall’antipasto al dolce. Fra le carni quella di maiale era la più apprezzata e i salumi più pregiati venivano, come oggi, dalla Gallia Cisalpina. «Nessun animale – scrive Plinio – fornisce più del porco alimenti alla ghiottoneria, dato che presenta circa cinquanta sapori, mentre la carne degli altri animali non ne ha che uno». Il riferimento è all’abilità degli allevatori di far variare il sapore in base all’alimentazione. E quando il maiale era ripieno, spesso di animali più piccoli, veniva chiamato ’troia’, (il porcus troianus della cena di Trimalcione nel Satyricon di Petronio) perché farcito alla maniera in cui il famoso cavallo venne farcito da Ulisse.
Una citazione colta dell’epoca, entrata poi nel gergo popolare in riferimento alla scrofa.