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 2012  ottobre 21 Domenica calendario

LIV ULLMANN

[Attrice prediletta di Bergman con cui ha condiviso cinque anni di relazione, una figlia e tanti film. Da “Persona” a “Scene da un matrimonio”, che raccontava la loro vita. Ora rimane la testimone del regista: “Vicino a lui non mi sono mai sentita prigioniera, però era un cannibale come tutti i cineasti. E infatti Giulietta MAsina ed io eravamo molto unite: entrambe martiri di un genio".] –
Quando è andata a trovarlo l’ultima volta, il giorno della sua morte, si è trovata in una casa nuda di quadri o manifesti di cinema: unica immagine, davanti al letto in cui il regista si coricava nelle sue notti solitarie, il fotogramma di Sarabanda, l’ultimo film, in cui lei e Erland Josephson si schermano la fronte. Per pudore, e per volere di Liv Ullmann, quella scheggia privata non appare nel documentario di Dheeraj Akolkar, Liv & Ingmar, in cui l’attrice evoca gli anni di passione e di lavoro con Bergman, tornando nel luogo sacro dell’inestinguibile sodalizio, la casa nell’isola di Farö, in Svezia, dove il cineasta s’era autoesiliato negli ultimi trent’anni. «Ho fatto appena in tempo per un ultimo incontro», si commuove l’attrice, i capelli a cascata sugli splendenti occhi azzurri: «È stata la prima volta nella mia vita in cui ho preso a noleggio un aereo, per raggiungerlo da Stoccolma e godermi ancora un istante con lui».
Liv e Ingmar: solo cinque anni di convivenza e un paio di film, nel cuore dei Sessanta, ma, una volta finita la relazione — da cui è nata una figlia, Linn, oggi scrittrice — quarant’anni di complicità, non solo artistica, e altri dieci film. Una vita-bis insieme: «Non passava giorno che non ci sentissimo al telefono. Nel privato era pieno di brio, tutto scherzi e battute: il contrario del suo cinema. Mi faceva ridere, mi dava energia: più di quella del nostro rapporto reale. Da separati, ci ha unito per sempre un universo comune. Ho fatto tante altre cose nella vita: recitato sulle scene di Broadway, interpretato molti altri film, tra cui Il Nuovo Mondo e Gli emigranti, candidato all’Oscar, di un altro svedese, Jan Troell, che considero il migliore tra tutti i miei registi. Ma sempre, ovunque mi spostassi, nelle valigie mi trascinavo Bergman. Che a sua volta, anche nei film realizzati dopo, non ha mai smesso di filtrare su grande schermo la nostra relazione ». La sua vita alla ribalta le è costata, da ragazzina, battaglie con i suoi, contrari alla decisione di divenire attrice: «Mio padre non mi ha più rivolto la parola, finché non sono diventata celebre. Ero timida: questa è stata la molla principale. Leggevo molto, correvo appena possibile al cinema, ma dovevo comprare il biglietto anche alle amiche perché mi accompagnassero. I miei, una famiglia molto religiosa della provincia norvegese, non volevano che uscissi da sola».
I successi — prima, durante e dopo Bergman — sono documentati in Liv & Ingmar, proiettato per la prima volta nel mese scorso al Festival des Films du Monde a Montreal con una standing ovation per la Ullmann. Bella fiammata di riconoscenza, ma anche amara constatazione cinefila: la platea era di vecchietti, neanche uno spettatore sotto i sessanta. Segno che, a cinque anni dalla morte e a nemmeno dieci dall’ultimo film, Bergman, con la sua mitica “famiglia” cinematografica («Ingmar aveva due alter ego, uno maschile e uno femminile, Max von Sydow e me»), è rimasto leggenda per i suoi contemporanei, ma è il grande sconosciuto dell’attuale tv-generation.
«Anche il cinema ha la sua archeologia », minimizza l’attrice, che il 16 dicembre compirà settantaquattro anni: «Pure Cinecittà è preistoria: Fellini, Sophia, Moravia... Ero giovane allora: venticinque anni. Forzavo Ingmar, che a quarantasei anni non si spostava mai, ad accompagnarmi. Uno dei nostri primi viaggi è stato a Roma: un bagno di folla... famosa. L’incontro più incredibile è stato con Fellini. Per strada, era magnifico: alto, grosso, cappellaccio nero — e la Ullmann ne imita, ridendo, l’imponenza — tutti noi a trotterellargli intorno. Ingmar, suo ammiratore, era felice di frequentarlo.
Lui, imperiale: in giardino, spiccava boccioli e li offriva a me e a Ingmar. Un artista. Un amore anche Giulietta Masina, che una volta, con piena coscienza del suo ruolo di donna, s’era precipitata in cucina per prepararci il pranzo, bloccata subito da un imperioso Federico: ma che fai? Giulietta e io ci intendevamo a meraviglia: ci sentivamo come sorelle, unite da una tacita solidarietà di vittime, dalla complice accettazione di un quotidiano martirio ai piedi del genio, alato nel lavoro, di piombo nel privato: lei, Federico e io, Ingmar».
Che altro ha gustato della dolce vita? «Abbiamo incontrato Moravia, di cui avrei interpretato nell’88
Gli indifferenti di Bolognini per la tv. È uno dei miei scrittori preferiti: sempre circondato da donne, anche lui. E ho conosciuto Sophia e Carlo Ponti, una coppia unica. Me li ricordo, insieme, al Pantheon, lui con John Huston che parlava in continuazione dei suoi film e lei, regale, impassibile, ad ascoltare. Negli ultimi quarant’anni, non ho mai trovato nessuna città al mondo viva come Roma a quei tempi». Nemmeno New York? «È stata una città di lavoro per me, l’ho vissuta in modo diverso. Negli anni Settanta, quando vi recitavo Casa di bambola, Woody Allen mi ha invitato a casa sua. Non l’ha fatto per me, ma per Ingmar, il suo idolo, che così avrebbe potuto finalmente incontrare. Ricordo bene la scena. Muta. Non si sono scambiati una parola tutta la sera. “È stato magnifico”, mi ha ringraziato Allen congedandomi. E, rientrata, trovo un messaggio di Ingmar sulla segreteria: “Che splendida serata”».
Le sue mattinate, invece, pare fossero un incubo, specie a colazione: «Purtroppo. Mi toccava sentire Ingmar raccontare i suoi sogni più cupi di quella notte. In pratica, venivo messa al corrente di quale sarebbe stato il mio prossimo film con lui». Bergman aveva bisogno di affondare il suo mondo tormentato e punitivo nella carne dei suoi attori: «Ci ha sempre considerato parte essenziale del suo cinema. Per questo non mi ha mai perdonata per aver rinunciato, ed è stato il più grande errore della mia vita, a Fanny e Alexander. Ingmar è ricorso a un’attrice più giovane, molto brava. Ma sullo script, ora conservato nel Fondo Bergman, ricorre, accanto a ogni battuta della mia sostituta, una nota a margine, dalla calligrafia rabbiosa: “Ti odio Liv”, “Liv ti odio”... Non mi ha più parlato per mesi». Interpretare un film di Bergman significava entrare nel suo mondo più intimo? «In Scene da un matrimonio mi sono totalmente identificata: Marianne sono io. Prima di girare il film, Ingmar mi aveva chiesto di tenere un diario, che ha poi utilizzato nella sceneggiatura, facendone il puntello della trasformazione della protagonista da sottomessa a donna forte, in rivolta».
I diversi personaggi da lei affrontati, in una continua acrobazia psichica, sono dunque, alla fine, la stessa donna? «Lo stesso uomo: Bergman. Non ho mai portato sullo schermo mogli, madri o figlie, ho sempre rappresentato Ingmar: il suo sorriso ironico, le pieghe ai lati della bocca, il corruccio tra le sopracciglia. L’ho fisicamente tradotto al femminile. Devo dire che mi sono anche molto ispirata alla figura di sua madre. Sapevo (e l’ho anche scritto nel mio libro, Changing) che, una volta scomparsa, lui si sarebbe ripiegato su di me e che io non avrei mai più potuto distaccarmene: è quel che è successo ». Al punto che è stata anche regista di Bergman e per Bergman, quando lui si è esiliato anche dal set: «Le sue inquietudini erano ormai parte di me. Non potevo lasciarle inespresse. Di qui, i due film tratti dai suoi scritti, Conversazioni private e L’infedele: abbiamo trascorso fianco a fianco, tra il ’96 e il 2000, giornate di riflessioni e di lavoro. Anche i miei attuali impegni, Casa di bambola a Broadway, un film che girerò da Signorina Giulia e la regia di Zio Vanja per un teatro in Norvegia, sono sulla scia di Bergman: Ibsen, Strindberg, Cechov, i suoi autori preferiti. Sono stata fagocitata da Ingmar, un vero cannibale, come ogni cineasta. Era di una violenza estrema: non fisica, ma psicologica. Vicino a lui, però, nell’isola di Farö, non mi sono mai sentita in prigione. Ma è vero che ero una giovane felice e spensierata e che lui mi ha sospinta in ruoli sempre più di nevrotica ». Si porta dietro oggi, in valigia, i ricordi di un comportamento possessivo e geloso? «No, viaggio con bagagli leggeri. I suoi modi oppressivi mi avevano indotta a lasciarlo. Ma, una volta divisi, è stato un idillio: ognuno a casa sua, con i propri amici, i propri umori, sapendo di poter sempre contare sull’altro nei momenti difficili. È stato il suo più bel regalo, durato quasi quarant’anni: il periodo più bello trascorso con lui».