Alberto Arbasino, Corriere della Sera 21/10/2012, 21 ottobre 2012
VENEZIA, L’ARTE PRET- A- PORTER
Negli anni Cinquanta, quando frequentavo l’Università a Milano, si usava l’aperitivo al Jamaica, presso Brera. Lì volentieri si trovava tutta un’alta scuola di letteratura, giornalismo, arte, fotografia: Pietrino Bianchi, Ugo Mulas, Franco Berutti, Carlo Bavagnoli, Piero Manzoni. Ma rivedendoci così tutte le sere, non veniva certo in mente di chiedergli un suo «Achrome» o una scatoletta delle sua «M... d’Artista». Così come non si badò a chiedere qualche autentica a Pino Pascali, dopo un’intervista televisiva sui «materiali inquietanti», dove rapidamente intrecciò una «Penelope» di pagliette o matassine metalliche. (La regalai a un’amica, e naturalmente una domestica zelante la usò per pulire le pentole).
Ora, alla grande e graziosa mostra veneziana allestita da Germano Celant per la Fondazione Prada a Ca’ Corner della Regina, The Small Utopia Ars Multiplicata, molte scatolette di quel «Pierino» si allineano in bell’ordine fra i tanti multipli, dal Futurismo alla Pop Art. Quanti orinatoi di Duchamp (a proposito), e slitte di Beuys e pacchi di detersivi di Warhol. E «legnetti»: carrettini costruttivisti olandesi, russi, manufattini dei Bauhaus, aggeggi molli di Claes Oldenburg. Gilet futuristi imbarazzanti da indossare. Piatti astrattisti eccellenti da appendere. Scatole e valigette surrealiste... Un vero supermarket di multipli anche d’uso quotidiano, fra tessuti e ceramiche di design, o forse anche no.
Al pianterreno, un profluvio di riviste e numeri unici. Dai più rari esemplari di Fluxus alle familiari antologie di Poeti Futuristi, pubblicate da Marinetti a Milano in Corso Venezia 61, sopra un perenne salumiere di fiducia. E lì, oltre a Libero Altomare e a Luciano Folgore e ad Auro D’Alba e altri, si ritrova l’amato Palazzeschi della Fontana Malata e Rio Bo. E si potrebbe rammentare che l’avvocato Marinetti da Pontecurone, padre di Filippo Tommaso e ottimo affarista in Egitto, possedeva un palchetto al Teatro Sociale di Voghera.
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Alla Biennale d’Architettura, il visitatore si chiede se il titolo «Common Ground» sia una provocazione o un momento di riflessione. Valori comuni, affinità condivise, collaborazioni di idee e progetti, progetti creativi per riciclaggi e restrizioni sostenibili? Ma che cosa risulterà definitivamente sostenibile? Ecco il tema centrale di un enorme convegno globale sulla Decrescita, con tantissimi intervenuti, alberghi pieni, vasti commenti sui media veneziani, non soltanto cartacei. E dunque, fra i Giardini e i giornali, convivono la politica dell’assemblage e l’economia del bricolage, le complessità dell’abusivismo ricuperato fra le monotonie del graffitismo sui territori metropolitani, la frugalità abbondante in una democrazia ecologica. E macché industrialismi consumistici. Piuttosto, bonificare con «resilienza» gli stili di vita entro gli ecosistemi. Così, ecco questa formula delle «abbondanze frugali» con impatti sempre più bassi sull’ambiente. «Antidoti alle consunzioni» e «controsviluppi» addosso alle «stoltezze epocali» dell’urbanesimo irresponsabile, della polluzione inefficiente, della verdologia perversa.
Ecco dunque alcune tra le formule in cui ci si imbatte in questi contesti. Ma del resto, Common Ground nella provincia elettorale americana appare sui titoli giornalistici cheap quale sinonimo dell’Eurozona. E invece qui, passando fra i padiglioni delle varie nazioni europee alla Biennale, si trovano pochi terreni comuni (o nuovi, come ai tempi di «breaking new grounds») fra gli schermi con proiezioni e i tendaggi e i muretti di mattoni o compensati o cartongessi. Magnifiche foto di siti archeologici, affidabilità trasversali nei nuovi restauri e nella nuova edilizia.
«Take Away» in Inghilterra, con caotiche visioni transoceaniche molto scoraggianti. Furbetterie in Austria, con un ingresso senza indicazioni sul retro, e dentro proiezioni di grumi e gnocchi imbarazzanti. E lontane memorie di acquerelli col ritorno dei cavalli di San Marco in uno sventolio di stendardi austriaci bianchi e rossi, fra certi vecchi veneziani che rabbrividivano: «Solo in certi palazzi se vede il vessillo dell’iniquo oppressor». (E i medesimi, quando l’acquisto di Palazzo Grassi veniva celebrato come uno «sbarco» della Fiat in Laguna: «A Venessia, lo sbarco porta mal»).
Forse, tra le «cospirazioni di requisiti» e le ambizioni spaziali e le astrazioni concettuali e i metabolismi sostenibili — fra patologie metropolitane, grotteschi quotidiani, pulsioni kitsch e rock con prese in giro di tendenze e stili di vita... — il padiglione più sensato pare quello della Russia. Una struttura simmetrica a cupole, tradizionale ma tappezzata da proiezioni di tessere digitali. E lascia in dubbio l’attiguo Giappone tutto-legno: come se le edilizie future si possano risolvere in tronchi d’albero inesauribili. Vive perplessità comunque su un avvenire di politiche assembleari con video di stragi, emergenze, demolizioni, carcasse. Inflazione o deflazione o stagnazione, in giro?
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Ci si può magari sorprendere, una domenica mattina, all’Arsenale, perché nel padiglione così lodato di Norman Foster si succedono su tanti schermi immagini televisive di scontri, lotte, conflitti, dissensi risolti in bombe e bastonate. Dall’esterno, verso mezzogiorno, arrivano invece i discorsi microfonati di un comizio annuale della Lega. Che differenza di toni, si commenta. Sarà merito del Nord-Est?
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Composizioni di teiere e caffettiere anacronistiche, quando si usano ormai bustine e polverine? Visitando la mostra dell’architetto e designer Aldo Rossi, ci si domanda cosa accadrebbe se questi medesimi dipinti si vendessero nei negozi attigui e affini, detti «gallerie d’arte», in un contesto ove pullulano, mentre scarseggiano le librerie. Qui, nei «Saloni» della fondazione Vedova, innanzitutto riviene in mente Vedova stesso, altissimo e sventolante il suo barbone bianco, quando ironizzava «devo chiamarla signora compagna, o compagna signora?», nei tumulti ideologici fra campi e campielli. Ma fra le brughiere più o meno metaforiche o metafisiche di Aldo Rosai, le didascalie rinviano a un cortile di Broni, a un amico di Pavia, a una ex-maestra di scuola al D’Azeglio di Voghera, ove ai tempi delle elementari esistevano solo una Dante Alighieri e una Edmondo De Amicis: le Scuole Vecchie e le Scuole Nuove.
Qui, oltre ai teatri d’epoca a Genova e a Torino (quando l’epoca appariva mediocre), si rammenta il monumento a Sandro Pertini, che non si voleva piazzare nel poco spazio fra l’antico Hotel Milan e l’attuale Armani. Ma Pertini morì, giusto in tempo. E nell’universale cordoglio si battezzò e collocò la precedente e ingombrante installazione.
Alberto Arbasino