Giuseppe Lupo, Il Sole 24 Ore 21/10/2012, 21 ottobre 2012
LA FABBRICA NARRANTE
Quando si riflette sulla narrativa di ispirazione aziendale, si potrebbe discutere a lungo sull’efficacia della forma-documento (anziché del racconto di pura invenzione) ricordando le opinioni espresse a suo tempo da Calvino e Vittorini. Gran parte delle questioni affrontate in letteratura tra anni Cinquanta e Sessanta, infatti, verte proprio su questa scelta: in che modo narrare la fabbrica? È un oggetto da descrivere fotograficamente (Vittorini, nell’esprimere il dissenso sul «Menabò 4», avrebbe detto naturalisticamente) oppure decodificandola e reinterpretandola alla luce di simboli e allegorie? Siamo nel cuore del dibattito, in quella linea d’ombra in cui scrittori e intellettuali furono chiamati a dare risposte, a fornire indicazioni, ad assumere traiettorie. In tal senso, l’esperienza di Ottiero Ottieri è quanto mai eloquente. Almeno due fra i libri che compongono la sua trilogia industriale – Donnarumma all’assalto (1959) e La linea gotica (1963) – si presentano sotto specie di diario (tra l’altro, il titolo originario del primo era Diario di Pozzuoli), si muovono cioè nella direzione di una riflessione in presa diretta e, pur trattandosi di opere differenti per genere, rivendicano una comune matrice testimoniale. Ciò indica che l’avventura di Ottieri non si delinea tanto mediante i colori del romanzesco, ma attraverso una scrittura che affonda nel vissuto. Sia la vicenda relativa allo stabilimento Olivetti di Pozzuoli (che fa da sfondo a Donnarumma), sia il taccuino di appunti confluiti nella Linea gotica sono il frutto di un’analisi cominciata nel segno di un’interrogazione individuale, ma poi subito innalzatasi al rango di introspezione collettiva, indagine sociale. Ciò che sorprende è una non comune capacità di osservare le trasformazioni del Paese e di valutarle come chiavi di un mutamento interiore. Ottieri è stato uno dei pochi in grado di registrare le variazioni nel paesaggio geografico e nel costume, calcolarne la portata sulla base di quel particolare sguardo, tra il distaccato e l’aristocratico, che non gli ha certo impedito di cogliere l’antropologia del cambiamento. Questo aspetto è particolarmente evidente nella Linea gotica: un libro di dualismi (o di contrasti) che trae la sua forza proprio mentre sottolinea la natura ancipite di una nazione in cerca di identità. Scavalcare la nuova "linea gotica" (altra cosa rispetto alla cesura del nazifascismo), passare cioè da Roma a Milano significa travalicare un modello di vita rurale e addentrarsi nelle periferie industriali, girare tra le fabbriche a bordo città (qui troviamo elencate la Pirelli, l’Alfa Romeo, la Breda, ma non mancano puntate alla Dalmine, alla Necchi, per non tacere dell’impegno presso la Olivetti), presagire quella che un cinquantennio dopo sarebbe diventata la "questione settentrionale". Proprio qui, nel paradigma delle due Italie (una lenta e soleggiata, l’altra tutta nebbia e ciminiere), in questa intercapedine di realtà contrapposte, si misura lo sguardo acuto della scrittura di Ottieri. Basti pensare alla paradossale distinzione con cui viene individuata una specie di doppia fabbrica, quella dell’azione e quella della contemplazione, praxis e logos contemporaneamente, due momenti eternamente presenti e alternativi nei ritmi sfrenati della produzione. «Il piano alto della fabbrica. I grandi» – scrive –«vi stanno in perenne seduta. Nei reparti il lavoro tocca il fondo del manuale, del non verbale, si frantuma nei gesti delle dita, dei piedi. Quassù, è puro verbo, pura discussione e raziocinio, programma nel futuro. Più il dirigente è importante, più il suo lavoro consiste nel parlare». Si tratta di un frammento che risale al 1955 (un anno destinato a segnare una tappa nella storia del Dopoguerra) e potrebbe suscitare più d’una perplessità l’immagine di un’industria soffocata dalle parole e un’altra abitata dal silenzio, quasi a individuare una camuffata frattura tra operai e colletti bianchi. Mai come in questa sede l’occhio chirurgico dello scrittore opera con lucidità e lungimiranza. Perciò Ottieri appare ormai un classico della nostra contemporaneità ed è quasi un atto dovuto ciò che si muove intorno a lui nel decennale della morte: non mi riferisco solo alla riedizione della Linea gotica nella collana di Guanda «Biblioteca della Fenice», ma anche alla riproposizione di Tempi stretti (per i tipi di Hacca) e al recente convegno «Le linee gotiche di Ottieri», organizzato dall’Università di Pavia. In realtà, qualsiasi sua pagina esprime un’indole fertile e ambigua, è qualcosa che va al di là dei confini aziendali, si muta in indagine all’interno delle nevrosi a cui non possono sottrarsi sia chi lavora a contatto con le macchine, sia gli intellettuali di fabbrica, i nuovi chierici che in quegli anni occuparono una zona franca, a metà strada fra i piani alti e i piani bassi della fabbrica. Tale distinzione si fa epifania di altre Italie, votate a destini differenti, entrambe vittime di quel gran congegno che è il capitalismo e che alla fine stritola i sogni e le ambizioni di tutti. Per cui sarebbe il caso di osservare i prestiti che La linea gotica rivendica con quel limpido documento di solidarietà che è la Condition ouvrière di Simone Weil, il celebre diario tradotto da Franco Fortini (un altro olivettiano) e dato alle stampe per le Edizioni di Comunità nel 1952. Il cerchio alla fine si chiude. Operai e intellettuali devono cedere il passo di fronte alle ragioni del più forte, associati da un destino di sconfitte e umiliazioni, immolati sull’altare di una nuova religione che non prevede resurrezioni, ma soltanto olocausti. La loro sorte è tanto più amara quanto più si certifica il senso di estraneità che Ottieri condensa in uno dei passaggi più lucidi: «Il mondo delle fabbriche è un mondo chiuso. Non si entra – e non si esce – facilmente. Chi può descriverlo? ... L’operaio, l’impiegato, il dirigente, tacciono. Lo scrittore, il regista, il sociologo, o stanno fuori e allora non sanno, o, per caso, entrano, e allora non dicono più». Per fortuna sappiamo che la profezia non si è avverata fino in fondo. La "civiltà delle macchine" ha fornito numerose prove della sua raccontabilità e mai come in questi anni assistiamo a un revival di officine e aziende tra le pagine dei libri. C’è però un elemento su cui varrebbe la pena continuare a indagare ed è quanto suggerisce Furio Colombo nella prefazione alla Linea gotica, quando definisce gli intellettuali di fabbrica «qualcuno che esplora con amore una chiesa, ma senza fede».