Fabrizio Onida, Il Sole 24 Ore 21/10/2012, 21 ottobre 2012
NON USA SOLDI PUBBLICI, AIUTA L’IMPRESA
Il governo sta mettendo a punto la fase attuativa del decreto che ha abolito 43 leggi e disposizioni su incentivi all’industria, facendone confluire gli stanziamenti residui (circa 800 milioni) in un unico "Fondo per la crescita sostenibile", per ora privo di indirizzi operativi. Il suggerimento del "rapporto Giavazzi", di azzerare o quasi gli incentivi per rimpiazzarli con un alleggerimento del cuneo fiscale e contributivo, non sembra ricevere buona accoglienza, e non solo per ristrettezze di bilancio.
Modeste risorse (210 milioni in due anni) sono previste per detrazioni Irpef e Ires a chi investirà in "startup innovative", trovando copertura in quote di gettito su tariffe elettriche e gas. Nel frattempo hanno cominciato a operare, con buone prospettive date le cospicue disponibilità liquide, i Fondi di investimento della Cdp (Cassa depositi e prestiti) la quale - come sottolinea il presidente Franco Bassanini - è una società che non usa risorse pubbliche e non ha garanzie dello Stato. Accanto ai fondi dedicati a infrastrutture-immobiliari e altre attività, nel settore industria e servizi troviamo due bracci complementari: a) il Fondo Italiano d’Investimento (Fii), che fornisce quote di capitale di rischio fino al 50% e anche finanziamenti a imprese di minore dimensione (fatturato inferiore a 100 milioni); b) il Fondo Strategico Italiano (Fsi) che punta solo a partecipazioni di capitale in imprese di medie dimensioni (fatturato superiore a 300 milioni, più di 250 addetti). Il Fsi ha già acquisito partecipazioni importanti (Metroweb, Kedrion, Avio) e altre ne sta considerando, tra cui una possibile alleanza con una cordata italiana per rilevare il controllo di Ansaldo Energia contrapponendosi ad offerte d’interesse da parte di giganti come Siemens e Alstom. In quest’ultimo caso speriamo non si dimentichi che il nazionalismo economico per difendersi dallo "straniero" ha giocato brutti scherzi in passato, e comunque sembra scarsamente coerente con la campagna per attrarre in Italia gli investimenti dei gruppi multinazionali. È questa la nuova politica industriale che Confindustria, sindacati, taluni partiti e (pochi) studiosi da tempo invocano, come stimolo e guida alla trasformazione virtuosa del nostro sistema produttivo? Certo qualcosa si muove, ma la credibilità del disegno complessivo migliorerebbe non poco se si facesse più chiarezza su almeno tre aspetti. Primo, non si capisce se, almeno nella prospettiva del triennio 2013-2015 si possa prevedere un ritorno dei crediti d’imposta alle spese di ricerca e innovazione, lasciati fuori dal decreto Sviluppo per mancanza di risorse finanziarie e forse anche per qualche necessario ripensamento sulle stime di Banca d’Italia che giudicavano quasi totalmente inefficace lo strumento. È un classico strumento di politica industriale "orizzontale" alquanto diffuso negli altri maggiori Paesi europei, dove peraltro si ritiene che il costo netto per l’erario sia assai ridotto quando si tenga conto dei ritorni di gettito da accresciuto reddito e occupazione qualificata, come riconosce lo stesso rapporto "Restart Italia" della Task Force sulle startup promosso dal Mise (pag. 15). Un eventuale rilancio dello strumento potrebbe comunque essere modulato riducendone la distribuzione a pioggia (in realtà una pioggerella), prevedendo una maggiorazione significativa dello sconto fiscale solo per le imprese che intendono partecipare a progetti collettivi di filiera tecnologica tipo l’ormai abbandonata "Industria 2015", nonché accompagnandolo da un tempestivo monitoraggio delle azioni e dei risultati. Questo ci porta al secondo punto. La politica industriale non può rimanere imprigionata dai (pur necessari) interventi urgenti sui tavoli di crisi, a partire dai casi più difficili (come Termini Imerese, Carbosulcis, Alcoa, Ilva ecc.) in cui la mancanza di un serio ricambio imprenditoriale lascia solo intravedere il consueto ricorso a varie forme di Cassa Integrazione e mobilità, anticamera di pericolosi sbocchi nell’economia sommersa anzi che di riconversione su attività manifatturiere o di servizi capaci di valorizzare le notevoli risorse umane e naturali che ancora esistono in quei territori. Per uscire dalla attuale stagnazione della produttività, che ci vede in coda nella classifica europea, occorre incentivare (anche con il lievito di un co-finanziamento pubblico-privato) l’aggregazione delle imprese e dei distretti più virtuosi e vivaci (ce ne sono) intorno a progetti di ricerca e innovazione "pre-competitiva" di un certo respiro: progetti pensati lungo quelle filiere tecnologiche in cui già oggi il paese e molti suoi territori possiedono vantaggi competitivi effettivi e potenziali. Anche in Italia si spendono molte parole su biotecnologie, nanotecnologie, fotonica, meccatronica, sviluppo eco-compatibile, parchi tecnologici, agenda digitale e quant’altro: ma il "sistema nazionale di innovazione" resta incerto e asfittico, rispetto a quanto avviene in Germania con la "HighTech Strategie", in Francia con i "Pôles de compétitivité", nel Regno Unito con i programmi di ricerca collaborativa sorvegliati dal Technology Strategy Board, per non parlare di molti paesi emergenti (non solo la Cina) che stanno facendo progressi impressionanti di diversificazione e avanzamento tecnologico. E la Commissione Ue sulle politiche industriali in Europa 2020 sollecita "piattaforme tecnologiche europee" per restare competitivi. Infine, la riforma in corso degli enti di ricerca, a partire da Cnr e Università, offre l’occasione per cominciare ad abbattere le barriere di burocrazie e di cultura che da sempre impediscono il formarsi di robusti meccanismi di trasferimento tecnologico dalla ricerca scientifica all’innovazione tecnologica delle imprese (anche qui il modello tedesco ci insegna). Domina ancora in Italia un tendenziale distacco fra centri di eccellenza scientifica (ce ne sono numerosi, a cominciare da alcuni Politecnici e Facoltà di Ingegneria) e il tessuto frammentato di tante piccole e medie imprese, il cui futuro dipende sempre più dalla capacità di innovare processi e prodotti, anche attingendo dalle frontiere della ricerca nei campi più diversi. Occorre qualche regia intelligente e pragmatica per schiodarci dai vizi passati, mantenendo i quali continueremo a restare fanalini di coda in un mondo che avanza.