Serena Danna, la Lettura (Corriere della Sera) 21/10/2012, 21 ottobre 2012
SIAMO TUTTI CARTOGRAFI
Nel 1998 il vicepresidente degli Stati Uniti d’America, Al Gore, tenne al California Science Center di Los Angeles una conferenza dal titolo «The digital Earth: understanding our planet in the 21th century» («La Terra digitale: per capire il nostro pianeta nel XXI secolo»). Il discorso (disponibile online all’indirizzo bit.ly/RXzlyh) cominciava così: «Una nuova ondata di innovazione tecnologica ci consente oggi di raccogliere, archiviare, elaborare e mostrare una incommensurabile quantità di informazioni sul nostro pianeta e su una varietà di fenomeni ambientali e culturali. Gran parte di questa informazione sarà "georeferenziata" — ovvero legata a un posto specifico sulla superficie terrestre».
Lo strumento informatico ipotizzato da Gore era quello che oggi chiameremmo un’applicazione: «Una rappresentazione tridimensionale a più risoluzioni del nostro pianeta contenente una vasta quantità di dati georeferenziati». A ricordare il discorso anticipatore del vicepresidente di Clinton (Gore stesso ammise davanti alla platea perplessa: «So che questo scenario può sembrarvi fantascientifico») è Jerry Brotton, storico della cartografia all’Università di Londra, nel volume — appena uscito in Inghilterra e negli Stati Uniti — A History of the World in Twelve Maps (Allen Lane).
È stata la compagnia americana Keyhole Inc., sostenuta dalla Cia, a sviluppare il software capace di generare immagini virtuali della Terra sognato da Al Gore. Un nome che diventò popolare tra gli americani quando nel 2003 la Cnn mandò in onda una ricostruzione virtuale in 3D del bombardamento americano sull’Iraq. Grazie al supporto economico dei servizi segreti americani, la Keyhole Inc. sopravvisse alla bolla della new economy, ma nel 2004 fu costretta a vendere il software all’azienda che ha trasformato la geolocalizzazione da strumento governativo in una grande opportunità commerciale alla portata di tutti: Google.
Jonathan Rosenberg, responsabile del product management di Mountain View, commentò così l’acquisto: «Con Keyhole, Google fa un enorme passo in avanti nello sforzo di organizzare l’informazione nel mondo e renderla accessibile a tutti». Jerry Brotton ricorda nel libro che inizialmente Sergey Brin e Larry Page volevano chiamare il nuovo software «Google World», ma — per non dare al progetto un volto imperialista — virarono verso un più neutrale «Google Earth».
«Da sempre chi disegna mappe — dichiara Brotton raggiunto via Skype a Londra — si muove in due direzioni opposte: da un lato è spinto dal desiderio democratico di offrire ai cittadini strumenti per l’orientamento, dall’altro dall’impulso di creare uno standard unico per osservare il mondo».
Il boom della cartografia digitale — nato con Google Earth e cresciuto negli ultimi anni con una moltitudine di progetti: da WikiMapia a OpenStreetMap, fino agli innumerevoli esperimenti «privati» di mappatura del territorio — si sviluppa proprio all’interno di questo paradosso.
I neocartografi digitali disegnano mappe che, proprio come quelle dei padri della cartografia, più che di geografia si nutrono di arte, architettura, scienza, estetica. «Le mappe online non hanno alcuna connessione con la geografia — puntualizza Brotton —. Per questo Google ci tiene a chiamare le sue mappe "applicazioni geospaziali" e ribadisce sempre che non ci sono geografi coinvolti nella lavorazione».
Secondo Mark Graham, ricercatore dell’Oxford Internet Institute all’Università di Oxford, i progetti svolti dai neocartografi digitali si possono organizzare in tre categorie: i globi virtuali, le applicazioni e i siti di proprietà dei colossi del Web che permettono agli utenti di esplorare virtualmente qualsiasi posto nel mondo; i wiki-locals, come Wikitravel e WikiMapia, dove gli utenti partecipano attivamente alla rappresentazione dei luoghi che possono essere visualizzati in scale differenti; e OpenStreetMap, in cui, invece di utilizzare dati privati o governativi, le mappe sono realizzate grazie a volontari che tracciano i segnali gps dei nostri device.
«Tradizionalmente — racconta Graham — la cartografia era nelle mani di una élite che disegnava il mondo in base alle esigenze del potente di turno». Le avanguardie del Novecento fecero dell’arbitrarietà delle mappe un tema costante della loro poetica: dalla cartina dell’internazionale situazionista con l’Algeria che si impone geograficamente sulla Francia a quella surrealista con gli Stati Uniti minuscoli e un Messico enorme (grazie alla presenza dell’amata pittrice Frida Kahlo).
Ma l’ironia degli artisti ha, purtroppo, solide basi nella realtà: la «Carta di Mercatore» per la navigazione — ancora presente in libri e atlanti — creata dal cartografo fiammingo Gerardus Mercator nel 1500 prevede l’Europa al centro del mondo e il Sud piccolo e deformato. Una rappresentazione del mondo che assecondava la colonizzazione europea.
Il fatto che Google Maps — più di mezzo millennio dopo — utilizzi la proiezione di Mercatore per la configurazione delle immagini online, pone seri dubbi su una maggiore democrazia delle mappe digitali. I rischi non riguardano solo le grandi aziende a caccia dei nostri dati georeferenziati («La mappa ci sta mappando», ha scritto sul «Guardian» Martin Dodge, ricercatore in Human geography alla Manchester University), ma anche la cosiddetta «citizen cartography».
«La cartografia gestita dai cittadini può aumentare il divario nel mondo, riproducendo le stesse dinamiche dei cartografi tradizionali: se facciamo troppo affidamento sulla "citizen cartography" avremo mappe sempre più dettagliate della parte occidentale del mondo, lasciando scoperta gran parte del globo», continua Graham. La classifica — tutta occidentale — dei Paesi con più dati geospaziali disponibili conferma le preoccupazioni dello studioso dell’Oxford University: ai primi tre posti ci sono la Norvegia, la Finlandia e la Svezia. Mentre l’Italia si colloca «solo» al ventesimo posto.
Guardando i progetti di geomapping online più interessanti in corso — da quelli del Senseable City Lab del Mit di Boston, diretto da Carlo Ratti, ai lavori dello Spatial Information Design Lab della Columbia University, fino ai lavori del «map geek» Eric Fischer — sembra che il futuro delle mappe «partecipate» riguardi solo una parte di pianeta.
Se, come scrive il sociologo Manuel Castells, il potere della «network society» sta nella comunicazione, la cartografia digitale rischia di essere lo strumento di un nuovo imperialismo digitale basato sul digital divide. Nonostante le intenzioni dei cittadini di buona volontà.
Serena Danna