Il fatto del giorno
di Giorgio Dell'Arti
Bush ha dato l’addio alla Casa Bianca...
• Non mancano ancora due mesi?
Sì, ma lui ha salutato lo stesso. Sa che l’altro giorno si sono incontrati a Washington i capi delle 20 potenze mondiali, il cosiddetto G20. Bush ha detto ai colleghi: «Forse non lo sapete, ma sto per andare in pensione...» Massimo Gaggi, l’inviato del Corriere della Sera, ha commentato: «In una cupa giornata di pioggia, una battuta che voleva essere spiritosa e invece è risultata malinconica».
• Guardi che non lo rimpiangerà nessuno.
Così si dice. Intanto, il Presidente si è congedato con un bel colpetto: il governo iracheno ha approvato proprio ieri l’accordo di sicurezza con gli Stati Uniti che prevede il ritiro delle truppe entro il 2011. In Iraq ci sono in questo momento 150 mila soldati americani, distribuiti su 500 basi. I militari lasceranno le città entro l’anno prossimo ed evacueranno completamente il Paese entro il 2011. Il premier al-Maliki ha avuto l’appoggio di sciiti, curdi e di una parte dei sunniti. L’ayatollah Sistani (sciita) ha approvato anche lui. I terroristi hanno accolto la notizia facendo saltare uno di loro a Diyala. Quindici morti, tra cui sette poliziotti.
• Significa che il ritiro dall’Iraq alla fine è stato deciso da Bush?
Casa Bianca e Bagdad discutevano della faccenda da un anno. Obama in campagna elettorale aveva promesso un ritiro entro 16 mesi, purché gli americani non facessero la figura degli sconfitti. Intendiamoci, Bush ha messo il cappello sul ritorno a casa molto relativamente: quando le truppe Usa se ne andranno, nessuno si ricorderà più di questo pezzo di carta. Inoltre, il Presidente ha certamente agito sotto la pressione di un’opinione pubblica contrarissima alla continuazione del conflitto. Tanto più che non è stato dimostrato alcun nesso tra Bagdad e Osama, l’Osama che ha colpito le Twin Towers, voglio dire. Tenga conto che gli Stati Uniti sarebbero dovuti uscire per forza anche a causa dei costi. Gli americani hanno un debito di 9.500 miliardi di dollari, che non possono più far salire, e la guerra, che all’inizio doveva costare 20 miliardi («al massimo»), ha già fatto spendere all’Amministrazione mille miliardi. In preventivo ne sarebbero stati messi tremila. I costi determineranno molte scelte future di Obama. Gli Stati Uniti spendono in armamenti quanto tutto il resto del mondo messo insieme. Potranno continuare così?
• E’ di questo che si è discusso a Washington sabato scorso?
No, come la Gazzetta ha riferito anche ieri, i 20 potenti - tra cui Berlusconi, e Draghi in quanto presidente del Financial Stability Forum - dovevano cominciare a metter giù le linee di una nuova architettura finanziaria mondiale. Ma non c’era Obama e s’è fatto poco o niente. Però Bush li ha costretti a una dichiarazione di principio in difesa del libero mercato e contro forme esasperate di protezionismo. Una dichiarazione molto forte.
• Che significa?
Da quando è scoppiata la crisi, è ricominciata una discussione assai accesa tra i fautori del libero mercato e quelli dell’intervento pubblico. Si tratta dei capisaldi di due scuole di pensiero che hanno, naturalmente, moltissime ramificazioni. La scuola liberista sostiene che il mercato ha in sé la forza per autoregolarsi, senza bisogno di interventi governativi. Lo dominano e lo rendono virtuoso proprio le qualità negative dei capitalisti: che, puntando al profitto, si limitano l’un l’altro. Spinto dalla propria ingordigia, inoltre, il ricco che vuole diventare ancora più ricco esercita di continuo sul sistema una «distruzione creatrice» che mantiene giovane la società. Di solito, questo tipo di pensiero si sposa bene, politicamente, col federalismo. Dall’altro lato del pensiero economico c’è invece lo statalismo o il protezionismo (mettere dazi per frenare la concorrenza degli stranieri) bene accoppiato in genere con l’idea di un governo centrale forte, che lasci poca autonomia alle realtà locali. I capitalisti, o le periferie più ricche, – dicono gli statalisti o centralisti – si mangiano tutto. necessario quindi che lo Stato, dal centro, faccia il regolatore, faccia affluire a sé la ricchezza (con le tasse) e la redistribuisca in modo da limitare le disuguaglianze. bene, perciò, che lo Stato sia il soggetto principe dell’economia, pigliando anche partecipazioni o addirittura il cento per cento delle società. Lei sa che la crisi ha costretto i più liberisti di tutti – americani e inglesi – ad accettare l’ingresso dello Stato nelle banche. Questo ha ridato vigore alla vecchia polemica. Bush allora ha preteso, prima di andarsene, di segnare un punto a favore della propria visione del mondo. [Giorgio Dell’Arti, Gazzetta dello Sport 17/11/2008]
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