Sergio Romano, Corriere della Sera 17/11/2008, 17 novembre 2008
SERGIO ROMANO RISPONDE A IGINIO BENEDETTI SUL CORRIERE DELLA SERA DI LUNEDì 17 NOVEMBRE 2008
Ho sentito in tv alcuni spezzoni dei discorsi che Barack Obama ha fatto nei suoi giri di propaganda elettorale. Personalmente sono allibito ascoltando le promesse che ha fatto: 5 milioni di posti di lavoro, assicurazione sanitaria gratuita per i 45 milioni di americani che attualmente ne sono privi, aumento degli stanziamenti all’istruzione con assunzione di migliaia di insegnanti e quindi quasi la laurea per tutti, aiuti a coloro che non possono pagare il mutuo, ecc. chiaro che nell’attuale situazione economica tutto questo è irrealizzabile, perché non si tratta di aspettative, come ha scritto Massimo Gaggi, ma di vere e proprie promesse. Se un politico italiano si fosse permesso di fare simili promesse sarebbe stato immediatamente squalificato. Invece sia sulla stampa Usa che su quella italiana nessuno ha messo in forse queste promesse.
Obama ha promesso di far pagare più tasse ai ricchi.
Non è certo tassando un po’ di più i ricchi americani che troverà le risorse per il mega programma che ha promesso. E allora? Fra quattro anni che cosa racconterà a coloro che l’hanno votato?
Iginio Benedetti
info@agtec.it Caro Benedetti,
Ciò che lei scrive del programma di Barack Obama potrebbe essere detto di molti altri programmi elettorali. Quando fu eletto alla presidenza della Repubblica francese nel maggio del 1981, François Mitterrand tenne fede agli impegni assunti nei mesi precedenti e incaricò il governo di avviare un piano social-comunista di nazionalizzazioni e aumenti salariali. Due anni dopo cambiò linea e fece da allora ciò che l’avversario sconfitto, il liberale Valéry Giscard d’Estaing, avrebbe probabilmente fatto se fosse stato rieletto. Quando entrò alla Casa Bianca dopo le elezioni del 1992, Bill Clinton veniva da una campagna nel corso della quale aveva dato la sensazione di essere in sintonia con la richiesta di leggi protezioniste avanzate da alcune lobby industriali contro le esportazioni cinesi. Ma si accorse rapidamente, dopo le elezioni, che i prodotti a buon mercato provenienti dalla Repubblica popolare presentavano due vantaggi: riempivano a poco prezzo la borsa della spesa dei consumatori americani e venivano pagati dall’importatore in dollari che i cinesi avrebbero investito in buoni del Tesoro degli Stati Uniti. Lo stesso Clinton promise ai suoi connazionali, come Obama oggi, una riforma sanitaria che avrebbe esteso l’assistenza ai 40 milioni di cittadini americani che ne sono privi. Ma rinunciò all’impresa quando si accorse che il buon progetto preparato da sua moglie suscitava la ferrea opposizione di ambienti medici e farmaceutici.
Questo non significa che i candidati debbano essere considerati bugiardi. Se gli elettori vogliono dare il loro voto in cambio di promesse i candidati sono costretti ad accettare le regole del gioco. I migliori si tengono sulle generali e cercano di non prendere impegni troppo costrittivi (mi è parso che in molti casi Obama abbia adottato questa linea), mentre quelli più spregiudicati non esitano a fare promesse che non riusciranno a mantenere. Gli uni e gli altri comunque si accorgono rapidamente, quando entrano nella «stanza dei bottoni», che non tutti i bottoni funzionano e che l’agenda dei lavori è in buona parte fissata dalle circostanze: una crisi inattesa, uno scandalo imprevisto, l’improvviso aumento o collasso dei prezzi delle materie prime su scala mondiale, una catastrofe naturale (come l’uragano Katrina) che mette a dura prova l’efficacia delle strutture di protezione civile. Queste considerazioni valgono in particolar modo per tempi confusi e tumultuosi come quelli che stiamo attraversando. Durante le campagne, quindi, è meglio prestare poca attenzione ai programmi e cercare di capire quale sia il carattere della persona, il suo stile di governo, il suo bagaglio culturale. Considerata in questa prospettiva, la presidenza di Barack Obama mi sembra, tutto sommato, piuttosto promettente.