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 2008  novembre 17 Lunedì calendario

Un generale tutto d’un pezzo capace di alternare la feluca del diplomatico al berretto del comandante

Un generale tutto d’un pezzo capace di alternare la feluca del diplomatico al berretto del comandante. C’è la sagacia fuori ordinanza di David Howell Petraeus dietro l’accordo che fissa al 31 dicembre 2011 il termine ultimo per il ritiro delle forze statunitensi dall’Iraq. A Washington lo chiamano il salva-Presidenti, ed è probabile che a lui questa definizione non dispiaccia. Dopotutto senza il buon uso della autonomia tattica concessa al generale oggi Bush non potrebbe vantare un oggettivo successo dopo tanti dispiaceri. E Barack Obama, appena insediato alla Casa Bianca, avrà anche lui bisogno di Petraeus per non perdere, e possibilmente per vincere, la quasi compromessa guerra in Afghanistan. La nuova scommessa del generale è temeraria, più di quella vecchia. Ma i talebani sbaglierebbero a sottovalutare il loro nuovo avversario e a non ripercorrere la sua storia recente. Nel gennaio del 2007 l’Iraq era per l’America un disastro compiuto. Attentati continui, perdite altissime, campagna elettorale alle porte. Bush prende allora due decisioni: spedisce a Bagdad altri 30 mila uomini e affida pieni poteri al nuovo comandante in capo David Petraeus. Il quale ci mette poco a rovesciare il tavolo. Senza mai compromettersi sul piano formale, il generale «parla con il nemico». Spezza il fronte della guerriglia sunnita e arruola una buona parte degli ex insorti nella lotta contro al Qaeda. Distribuisce diversamente sul terreno le forze statunitensi e punta alla valorizzazione del nuovo esercito iracheno nel quale sono stati riammessi i baathisti sunniti prima ridotti al rango di paria. Incoraggia per quel che può la riconciliazione interna e approva un dialogo circoscritto con l’Iran sciita. Dopo tre anni di vicolo cieco e un annuncio di vittoria del quale oggi lo stesso Bush si pente, il pragmatismo post-neocon di Petraeus cambia il volto della guerra. Diminuisce il numero degli attentati (che tuttavia continuano, come si è visto anche ieri). Calano vistosamente le perdite americane. A Bagdad la vita torna a una precaria normalità controllata sempre più dagli iracheni. E con il governo di Nuri al-Maliki viene impostata la trattativa che ora si è conclusa in accordo: già dalla metà del 2009 le divise americane dovranno sparire dalle strade delle città e dei villaggi, in attesa del tutti a casa fra tre anni. Il patto, beninteso, non esclude che poco o anche molto possa andare storto. Obama, che inizialmente voleva il ritiro entro sedici mesi dalla sua elezione, si adatterà senza fatica alla nuova scadenza. Ma la riconciliazione interna in Iraq non c’è stata, non c’è stata una equa distribuzione delle risorse energetiche, rimane insomma il pericolo di una disgregazione del Paese in tre aree diverse e non amiche. Aspetteranno il ritiro Usa per regolare i conti, le molte milizie armate che sopravvivono a Bagdad e dintorni? E quale ruolo svolgerà l’Iran, che in assenza di contropartite su altre scacchiere può facilmente soffiare sul fuoco appena al di là dei suoi confini? Dell’Iraq, non c’è da dubitarne, sentiremo ancora parlare. Ma quel che Petraeus ha fatto partendo da dove è partito ha comunque del miracoloso, e ora Barack Obama spera che il miracolo possa ripetersi in Afghanistan. Questa volta il Presidente e il generale vorranno entrambi cambiare registro. Si tratta di incoraggiare, ma anche di gestire, i contatti che Hamid Karzai ha avviato con i talebani «meno cattivi» per capire se la formula applicata ai sunniti in Iraq possa essere ripetuta in Afghanistan. Si tratta di dare maggior peso alle tribù e agli «anziani», per frenare lo slittamento della società afghana verso posizioni anti-invasori. Si tratta di ottenere il massimo dagli alleati (anche l’Italia sarà sollecitata) in termini di forze militari e di sostegni finanziari. Si tratta di riorganizzare completamente il capitolo degli aiuti, evitando gli attuali enormi sprechi. Si tratta di provare a coinvolgere i Paesi vicini (anche l’Iran) e di elaborare una nuova politica verso l’instabile Pakistan. E soprattutto la visione del generale sarà messa alla prova dai bombardamenti che facendo centinaia di vittime civili distruggono quel che altrove si è provato a costruire, in Afghanistan e da qualche tempo anche in Pakistan. La prova del fuoco è dunque alle porte. Per Barack Obama, beninteso. Ma anche per il generale che sa dosare come nessun altro carota e bastone.