Ennio Caretto, Corriere della Sera17/11/2008, 17 novembre 2008
WASHINGTON
Per Michael Walzer si profila una conclusione migliore del previsto della lunga guerra dell’Iraq. «Il presidente Bush – dichiara sorridendo – lascia al successore Obama più tempo di quello che aveva chiesto per il disimpegno da Bagdad e la sua stabilizzazione ». Il filosofo politico elogia Bush: cosa, ricorda «che non faccio spesso ». «Possiamo incominciare a sperare nel buon esito del nostro intervento – aggiunge – qualsiasi accordo che ci consenta di ritirare le nostre truppe è ben venuto. Ma perché regga alla verifica del tempo esso dovrà essere seguito da altri egualmente importanti. Un compito – conclude – che spetterà non più a Bush ma a Obama».
A quali accordi allude?
«A quelli indicati da Obama, ad accordi con i paesi vicini all’Iraq, l’Iran e la Siria innanzitutto. La sicurezza irachena dipende oltre che dal consenso delle forze politiche interne anche da queste potenze, con cui purtroppo Bush ha sempre rifiutato di negoziare».
Lei crede che Obama avrà successo?
«Forse è utopico pensare che l’Iran e la Siria vogliano aiutare gli Stati Uniti. Ma la stabilità dell’Iraq è anche nel loro interesse, nell’interesse dell’intero Golfo Persico e dell’intero Medio Oriente. Il dialogo sarebbe difficile ma non impossibile ».
Sarebbe una svolta anche per la questione palestinese?
«Ritengo di sì. L’Iran e la Siria sponsorizzano Hezbollah e Hamas. Se raggiungessero un accordo con noi sull’Iraq, la posizione di Israele potrebbe migliorare gradualmente. La questione palestinese non sarebbe più insolubile».
Le sue risposte tradiscono qualche preoccupazione per il futuro dell’Iraq.
«Effettivamente ci sono alcune incognite. La prima è se tutte le forze politiche irachene legittimeranno l’accordo tra il governo Maliki e l’amministrazione Bush. La seconda è se la costituzione verrà rispettata e diverrà di fatto una federazione con regione autonome, curde, sunnite e sciite».
Lei teme che non accada?
«Non si può escludere che in Iraq scoppino lotte intestine, in particolare che i curdi vengano attaccati. E’ il motivo per cui vorrei che gli Stati Uniti conservassero una base militare nel Kurdistan, non altrove perché non ce n’è bisogno. Sarebbe una presenza significativa, un monito a non boicottare la pace».
Mi sbaglio o lei sospetta che il radicalismo islamico possa prendere piede in Iraq?
«Esatto. I contrasti tra sciiti, sunniti e curdi sono reali, e in queste condizioni l’Islam può farsi estremista. Di più, il disimpegno di una forza straniera può contribuire a spargimenti di sangue. Basti ricordare il disimpegno britannico in India alla fine del colonialismo».
Non si possono prevenire scenari del genere?
«Sì, ma a certe condizioni: che il ritiro dei nostri soldati sia lento e accompagnato da misure a difesa della popolazione; che chi ha lavorato con noi e si è esposto a pericoli possa trasferirsi negli Stati Uniti, che la polizia e le forze armate irachene assumano in parallelo il controllo della nazione».
A suo parere, che ruolo avrebbe in Medio Oriente un Iraq stabile e democratico?
«Supposto che superi il passaggio del 2012-2013, anni che si preannunciano delicati, un ruolo costruttivo, specialmente per quanto riguarda la produzione petrolifera, di cui in passato fu uno dei pilastri. Ma molto dipenderà dai rapporti che stabiliremo con Bagdad e le altre potenze regionali».
Un’ultima riflessione sulla guerra dell’Iraq?
«Avremmo dovuto imparare dal Vietnam che è molto facile entrare in guerra e molto difficile uscirne. Tutto sommato, da come si erano messe le cose, abbiamo avuto fortuna. Dopo gli errori da noi commessi, poteva finire molto peggio».
Ennio Caretto