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 2008  novembre 17 Lunedì calendario

Affari & Finanza, lunedì 17 novembre Erano le dieci e due minuti del 10 novembre quando il sito del Wall Street Journal, il vangelo dei mercati finanziari americani, pubblicò online il certificato di morte

Affari & Finanza, lunedì 17 novembre Erano le dieci e due minuti del 10 novembre quando il sito del Wall Street Journal, il vangelo dei mercati finanziari americani, pubblicò online il certificato di morte. Gli analisti della Deutsche Bank avevano avvisato i clienti che il valore dei titoli General Motors era "zero". Zero come niente, nada, nulla, nichts, meno di un rottame di ferro o di una bottiglia di plastica riciclabile che qualche valore conservano. Il consiglio della banca agli sventurati che ancora avessero posseduto titoli della exsignora dell’industria automobilistica mondiale, sembrava una battuta ironica, se i banchieri tedeschi fossero sospettabili di ironia: "Vendete tutto e subito. Se ci riuscite".La festa del centenario della casa che era stata fondata proprio un secolo fa, nel 1908, che aveva acceso la fantasia di aspiranti automobilisti intrappolati in scatolette a motore in Russia, in Cina, in Europa, in America Latina e trasportato il sogno americano sulle sue "Cadillac" rosa, era diventata la veglia funebre. Senza una trasfusione di almeno 25 miliardi di dollari da parte del governo americano, che molti considerano comunque come accanimento terapeutico, la General Motors vale oggi, appunto, zero. Nella storia dell’economia e della finanza di questi ultimi decenni più roventi che ruggenti, non sarebbe la prima, nè certamente l’ultima, mega azienda a sprofondare nell’abisso spalancato dalle "Wall Street follies" e nella propria inettitudine. Ma se nel collasso della Enron, della Tyco, della Worldcomm, come in Italia di grandi società come Parmalat o Cirio, si poteva accusare il management non di incompetenza, ma addirittura di crimini e, nel caso delle tre americane, di truffe e falsi duramente puniti, nel tramonto della General Motors ci sono i segni ancora più angosciosi della fine di un’era geologica. La parabola classica del dinosauro divenuto troppo grosso, troppo ingordo, troppo stolto per reggere ai cambi di clima e alla sfida di altre speci. La "GM" non è usiamo il tempo presente resistendo alla tentazione del passato remoto un’azienda che fabbrica automobili, autocarri e Suv. La "GM" è stata, in questo caso si può usare il passato prossimo, l’America, il volto, il marchio, l’arsenale, l’incubatrice dell’economia e della forza di questa nazione. Non c’era nessuna iperbole nella famosa frase del presidente della società, Charles E. Wilson, del quale si diceva che la "E" in mezzo stesse per "Engine", motore, destinato a divenire ministro del Tesoro, secondo la quale "Ciò che va bene per la GM va bene per l’America e viceversa". Dai motori della Cadillac montati sui carri armati Sherman che dilagarono in Europa, scelti perchè tutti i meccanici sapevano come ripararli avendoli maneggiati a migliaia nelle loro officine, ai missile Cruise Tomahawk, prodottio dalla sussidiaria Hughes Aviazione assorbita prima di essere di nuovo venduta, la casa di Detroit aveva combattutte tutte le guerre americane e aveva poi accompagnato il ritorno alla pace e alla prosperità dei reduci, mettendoli al volante di station wagon per le loro famiglie, di "hot rod", di macchine pretenziosamente sportive come la Camaro le Corvette per i bulli e di barconi di lusso per gli arrivati. La Cadillac Bianca, possibilmente decapottabile, che scivolava via silenziosa lungo le strade delle metropoli, si era beccata nei ghetti neri il nomignolo irridente di "Jew Canoe", la canoa del ricco ebreo newyorkese. Fu proprio allo zenith del proprio successo, in quegli anni ’70 nei quali la azienda decise di ricostruire di tasca propria il centro di Detroit devastato dalla massima violenza razziale e criminalità costruendo il monumento a sè stessa, i grattacieli di cristallo del "Renaissance Center" ,che il Tirannosaurus Rex dell’industria non vide arrivare la sfida delle piccole scimmie intelligenti, che ora lo stanno divorando. La mazzata del prezzo del petrolio triplicato nei 12 mesi fra il ’73 e il ”74 la trovò completamente impreparata e culturalmente arretrata. Nella fretta di rispondere alla improvvisa domanda di automobili meno ingorde di carburante, produsse modelli come la tragica "Corvair", l’auto che da sola trasformò Ralph Nader da un oscuro attivista al pontefice dei consumatori. La definì "pericolosa a ogni velocità", dopo avere dimostrato che il piantone rigido e monopezzo dello sterzo avrebbe trapassato il petto del guidatore come una lancia in qualsiasi urto frontale. La "Corvair" fu soltanto un malanno passeggero, per il dinosauro che si credeva inattacabile. Il suo portafoglio di "holding" aveva troppo carte, e troppi fondi, per poter tremare davanti al fallimento di un atroce modello. Era presente in tutto il mondo, dalla Daewoo Coreana alla Opel tedesca fino alla Saab svedese, autofinanziava e autoassicurava le proprie vendite, che ancora nel 2007, l’anno scorso, avrebbero raggiunto i 16 milioni di vetture. Le concorrenti giapponesi, che cominciavano timidamente ad affacciarsi con marchi sconosciuti quali Toyota, Honda, Datson (la Nissan), esportavano ridicoli "econobox", scatolette a buon mercato e neppure l’effimero boom della Fiat 128 che vendette 70 mila auto in un anno (senza provvedere alla rete di assistenza, così condannandosi per sempre al ridicolo del "Fix It Again Tony", riparala di nuovo, Tony) facevano sorridere Roger Smith e i cervelli della GM. "I nostri consumatori sono lamieradipendenti" disse, vogliono "macchine grosse, perchè in America ’bigger is better’, più grosso vuol dire migliore". La scomparsa di una concorrente come la Amc American Motors e l’inizio dell’agonia della "terza sorella", la Chrysler, salvata temporaneamente dal genio di Lee Iacocca e dal miliardo di dollari prestati (e restituiti) dal governo, avrebbero dovuto scuotere l’ "hybris", la presunzione del pachiderma. I suoi progettisti zigzavano fra modelli tragici, come la Cadillac Cimarron, una orribile versione per poveri dell’auto per ricchi, mentre i giapponesi puntavano sul controllo della qualità per tutti, offrendo modelli che davano l’impressione del lusso ai poveri, e modelli avveniristici, come la prima auto interamente elettrica, la EV1 a batterie. Magnifica vettura, ma costava il doppio del prezzo di vendita, aveva un’autonomia limitata a poche decine di chilometri, dunque inutile per i lunghi trasferimenti dei pendolari e fu cancellata, meritando alla GM la fama, ingiusta, del’orco che uccise l’auto elettrica. La potenza del sindacato dell’auto, la United Auto Workers, che aveva trasformato ogni operaio in un benestante "middle class" con salari minimi orari di 20 dollari, negli anni ’70 quando la media era al massimo di 2, aveva gravato la casa di costi del lavoro ineguagliati. E quando la concorrenza giapponese, la scarsa qualità delle proprie auto, la arretratezze dei modelli e la confusione cannibalistica fra troppo marchi diversi, Plymouth, Oldsmobile, Cadillac, Pontiac, Chevrolet appiccicati su auto identiche, cominciarono a piegargli le zampe, il pachiderma non seppr fare altro che chiudere stabilimenti, devastando le città come Flint, nel Michigan, dove era nata nel 1908 e riducendola alla terra di nessuno che Michael Moore raccontò nel più bello e toccante dei suoi film, "Roger and me". Paradossalmente, il colpo di grazia venne sotto forma di un apparente successo, negli anni 90 della benzina regalata a 25 centesimi al litro. Prese la forma degli Suv, degli Sport Utility Vehicles, i 4x4 sempre più mastodontici, che ristuzzicarono l’appetito americano e mondiale per "il più grosso e pesante". Con la complicità del parlamento e dei governi, che esentarono i Suv dalle norme sul consumo e sull’inquinamento, classificandoli come "veicoli commerciali", i fuoristrada che non andavano mai fuori strada ma portavano impiegati in ufficio e mamme all’allenamento dei bambini, furono la "pera" che eccitò GM e la accecò, arrivando alla produzione di quel mostro derivato dalla jeep militare, la Hummer, capace di bruciare un litro di benzina ogni due chilometri. La GM tornò a essere la regina, ma di un impero ormai sfatto. Mentre le "scimmie intelligenti" aprivano nuovi stabilimenti proprio in Nord America per produrre i motori del futuro, parsimoniosi, efficenti, brillanti e ibridi, la regina di un regno che non c’era più cominciava a bruciare due miliardi di dollari al mese delle proprie riserve liquide, abbondanti (30 miliardi all’inizio del 2008) ma non infinite. Quando le vendite sono collassate nella tarda estate, perdendo due milioni e mezzo di auto in due mesi, 700 concessionarie sono state costrette a chiudere per mancanza di clienti e di credito. Il titolo è sceso a poco piu di due dollari, allo stesso valore nominale che aveva nel 1943, 65 anni or sono, dunque una frazione minuscola. Duecentosessantamila posti di lavoro sono appesi al filo di formaggio del possibile salvataggio pubblico, avversato da tutti coloro che si chiedono, come ha fatto Time, se abbia senso tenere in vita vegetativa un corpo ormai sfatto. Nessuno, dal mondo, dopo il fiasco dell’esperimento Daimler</->Chrysler, matrimonio insensato e fallito, dà alcun segno di voler recuperare la carcassa boccheggiante sulla battigia. Come un dirigibile in caduta, il management sta scaricando tutto quello che può, sussidiarie, piani pensione, bonus, spese di rappresentanza, progetti a mezza cottura, stabilimenti, nell’illusione di riprendere quota. Non si vedono, all’orizzonte, nuovi modelli che possano rianimarla e in queste ore la GM ha annunciato malinconicamente che ridurrà la propria presenza al salone dell’auto di Los Angeles, come se si vergognasse di far vedere quello che ha, e soprattutto quello che non ha. Se dovesse arrendersi, il Pil americano perderebbe un punto tondo. Pare impossibile immaginare un’America senza la General Motors. Ma era impossibile anche immaginare Manhattan senza le Torri Gemelle. Vittorio Zucconi