Ci risentiamo tra tre mesi di Marco Travaglio, l’Unità, 17/11/2008, pag. 28, 17 novembre 2008
Quando si dice che, prima di commentare le sentenze, bisogna leggere le motivazioni, non è una frase rituale
Quando si dice che, prima di commentare le sentenze, bisogna leggere le motivazioni, non è una frase rituale. Perché, fatto salvo il diritto delle vittime a protestare se ritengono di non aver avuto Giustizia, gli altri dovrebbero almeno sapere di che stanno parlando. Per ora, c’è solo un dispositivo di poche righe con l’elenco degli imputati assolti e di quelli condannati. Nient’altro. Entro tre mesi, sapremo anche i perché e i per come. Cioè quali fatti sono stati accertati, quali sono stati smentiti, e quali sono stati accertati ma non c’è la prova certa che li abbia commessi Tizio piuttosto che Caio. Paradossalmente tutti i commenti sulla sentenza di Genova sono uguali: si è detto, con toni opposti, che i giudici hanno smentito l’esistenza di mandanti superiori per le violenze delle forze dell’ordine contro cittadini inermi nella scuola Diaz e per le prove false create ex post per giustificare la mattanza. L’ha detto chi a sinistra s’è indignato perché i giudici hanno risparmiato i vertici della polizia, l’ha detto chi a destra se n’è felicitato. Niente di più sbagliato o (almeno) di più prematuro. possibilissimo che nelle motivazioni il Tribunale di Genova metta nero su bianco che i mandanti esistono e gli agenti condannati eseguivano ordini superiori, ma le indagini non li hanno individuati oltre ”ogni ragionevole dubbio”: o perché sono state fatte male, o perché sono state depistate (un’inchiesta parallela sull’ex capo della Polizia Gianni De Gennaro ipotizza qualcosa del genere), o perché le prove a carico di Tizio o Caio non erano sufficienti ma era impossibile scoprire di più in quanto i mandanti non han lasciato impronte digitali. Vedremo, leggeremo. È già accaduto per Piazza Fontana: quando la Cassazione assolse, due anni fa, Delfo Zorzi, si disse, a sinistra con dolore e a destra con sollievo, che cadeva la pista nera e si tornava all’anno zero. Poi uscì la sentenza e nessuno ne parlò. Peccato, perché la sentenza afferma che la matrice nera della strage è accertata, la bomba era opera della cellula veneta di Ordine nuovo, ma non c’erano prove sufficienti a carico di Zorzi, mentre altri probabili complici come Freda e Ventura non potevano più esser condannati perché già giudicati e assolti per lo stesso fatto. Chiedere al processo penale di ricostruire la verità assoluta di un fatto è assurdo: la verità giudiziaria è sempre, inevitabilmente, un minuscolo spicchio di quella complessiva. Il che non vuol dire che la verità giudiziaria non vada considerata, anzi: vuol dire che, quando si accerta 10, bisogna calcolare che è accaduto 100. Ecco perché, in un Parlamento normale, cioè non in quello italiano, sarebbe doverosa una commissione d’inchiesta che accerti le responsabilità politiche dei vertici della polizia del 2001: per farlo bastano prove molto meno stringenti di quelle richieste per mandare qualcuno in galera. Se il nuovo capo della Polizia Antonio Manganelli s’è assunto la responsabilità politica della morte del tifoso Gabriele Sandri, ucciso daunagente in circostanze impreviste e imprevedibili in un autogrill, non sarebbe difficile fare altrettanto per chi dirigeva le operazioni in un evento ampiamente previsto e pianificato come il G8. Ma in Italia, da una ventina d’anni, sappiamo a che servono le commissioni d’inchiesta: a fabbricare verità di comodo, cioè di partito; a diffondere ricatti; e a impapocchiare quel poco che la magistratura è riuscita ad accertare. Dio ce ne scampi