Stefano Semeraro, La Stampa 17/11/2008, 17 novembre 2008
Correvano nei boschi, volavano su argini e sterrati, sgommando da una contea all’altra su ponti di legno e ferro
Correvano nei boschi, volavano su argini e sterrati, sgommando da una contea all’altra su ponti di legno e ferro. North e South Carolina, Tennesse, Florida. Musica di banjo, odore di tabacco e cotone. La pista la tracciava la luce della luna nelle calde notti del profondo sud. Sotto il cofano motori taroccati, nel baule taniche di liquore illegale, caricate nelle botteghe nascoste dei «moonshiner» - i produttori clandestini che iniziavano a lavorare quando il sole calava. Alle calcagna i cops, i poliziotti. I veri Padri Fondatori della Nascar, la serie automobilistica più popolare d’America che ieri notte ha chiuso il suo 60 campionato sull’ovale di Homestead, sono stati loro, i «bootlegger». Piloti senza legge, distillatori di velocità vietate negli anni del Proibizionismo e della Grande Depressione. Le origini della Nascar sono i cardini del sogno americano su quattro ruote: sceriffi, banditi, un inseguimento senza fine, anarchico e politicamente scorretto, con il South-East al posto del Far West. L’hardware lo forniscono macchine da corsa che, almeno all’apparenza, sono identiche a quelle che riposano ogni sera nei garage di tutte le periferie Usa. «Stock car», ovvero macchine di serie. L’importante è che abbiamo le ruote coperte e, anche se ormai la leggenda si è trasformata in business, un baule dove trasportare la merce giusta. Ieri whisky e rye, oggi i dollaroni di sponsor e tv. Perché le gare della Nascar sono nate sì dai commerci illegali, ma oggi sono lo spettacolo sportivo più seguito degli States dopo il football, con 75 milioni di appassionati e un giro di affari stimato in 3 miliardi di dollari. Tutta colpa del XVIII Emendamento, quello che il 19 gennaio 1919 introdusse in America il proibizionismo. Bere alcool divenne illegale, Al Capone intuì l’affarone, e sulla voglia di trasgredire nacque un’industria. Servivano attrezzi speciali, e i corrieri iniziarono presto a modificare telai e motori per seminare meglio le auto normali della Polizia. Con le loro Ford, le loro «Chevy» e le loro Hudson modificate, i ladri battevano le guardie: spesso, non sempre. «The ballad of Thunder Road», la famosa canzone tratta dall’omonimo film interpretato da Robert Mitchum nel 1958 e che Bruce Springsteen riprese nel ’75, racconta di un «moonshiner» che «uscì di strada ai novanta all’ora, ma la Legge non riuscì a catturarlo, perché il Diavolo se lo portò via prima». Gli incerti del mestiere. Inevitabilmente i «bootleggers» iniziarono a gareggiare fra di loro. Prima nelle gare sullo sporco, sui circuiti in terra battuta, dove ogni scorrettezza era concessa. Poi, fra gli anni ’30 e la fine della Seconda Guerra Mondiale, su ovali sempre più regolari, lunghi e asfaltati, come quello di Daytona Beach, la città della Florida che ancora oggi ospita gli uffici e la gara più famosa della Nascar, la Daytona 500. E dove, nelle sale dello Streamline Hotel, nel dicembre del 1948 William France senior raccolse piloti e gestori di pista per fondare la National Association for Stock Cars Auto Racing, la Nascar appunto. Aderirono in 600, molti dei quali erano stati distillatori o corrieri fuorilegge. Uno di loro, Robert Glen Junior Johnson, leggendario «moonshiner» del North Carolina, classe 1931, dopo aver beffato per anni polizia locale e federale nella contea di Wilkes divenne lo Schumacher delle stock car anni ’50 e ’60, e ancora oggi possiede una scuderia. Mr France però certi dettagli amministrativi li tenni segreti per anni. Nel corso del tempo la Nascar, oggi guidata dall’erede di Bill France, Brian, è cresciuta enormemente. A miti rudi come Cale Yarborough, Dale Earnhardt sr. E Richard Petty si sono sostituiti nuovi divi dal volto hollywoodiano e dalla parlata fine come Jeff Gordon e Jimmy Johnson. Le macchine hanno ancora il cambio a quattro marce e il carburatore; per guidarle mentre scodano a 300 all’ora su un’ovale, a un palmo da un muro di cemento, nel traffico di quaranta concorrenti, servono tecnica e attributi vecchio stile. Fanno arrabbiare gli ambientalisti perché inquinano terribilmente, ma ormai sono di produzione solo nella vernice e sotto la carrozzeria nascondono tecnologie, specie per quanto riguarda la sicurezza, molto raffinate. Ci sono scuderie, come l’Hendrick Motorsport, che vantano budget e organizzazioni paragonabili alla F.1: 600 dipendenti, allenamenti per i meccanici curati tre volte alla settimana in palestra da ex giocatori della Nfl, tre jet privati da 50 posti di proprietà del team stesso. Si corre ogni settimana, per 36 week-end all’anno. E su piste ovali che vanno da mezzo miglio a circa tre miglia, per gare che a noi europei sembrano noiose, disputate «turning left», sterzando sempre a sinistra, si stipano facilmente 50mila spettatori. La Nascar è rimasta a lungo fedele alle proprie tradizioni molto sudiste. Nel 1963 la gara di Jacksonville, in Florida, la vinse a sorpresa un pilota di colore, Wedell Scott, con due giri di vantaggio sul bianco Buck Baker. Gli organizzatori però non gli esposero la bandiera a scacchi. Coppa e baci della Miss andarono a Baker, mentre il primo premio fu consegnato a Scott solo un mese dopo, da organizzatori indispettiti e terrorizzati dalla possibile reazione del pubblico. Anche oggi che il presidente degli Usa è Obama, molti dei fan non vedrebbero volentieri nella Nascar un driver «abbronzato» come Hamilton, ma i tabu stanno cadendo. La serie si sta timidamento aprendo a nuovi mercati e ai piloti stranieri. Nel 2009, ad esempio, per la prima volta dopo l’isolata partecipazione di Lella Lombardi a Daytona nel 1977, un italiano, Max Papis, correrà per la Toyota nella serie principale della Nascar. «In America essere un pilota Nascar è uno stile di vita», racconta Papis in una lunga intervista che apparirà domani sul sito www.italiaracing.net. «Sei un divo, con mille impegni anche fuori dalla pista. Già ho notato la differenza facendo la spesa al supermercato: prima passeggiavo con mia moglie e mio figlio Marco e ci guardavano solo perché parlavamo un po’ strano, adesso la gente si ferma e mi fa i complimenti». Da fuorilegge a modelli. Dai boschi al prime-time tv. Un cerchio, anzi un ovale molto americano che si chiude.