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 2008  novembre 17 Lunedì calendario

Shozo Shimamoto samurai del colore ROCCO MOLITERNI INVIATO A GENOVA Io credo che la prima cosa da fare sia liberare il colore dal pennello

Shozo Shimamoto samurai del colore ROCCO MOLITERNI INVIATO A GENOVA Io credo che la prima cosa da fare sia liberare il colore dal pennello. Se in procinto di creare non si getta via il pennello non c’è speranza di emancipare le tinte. Senza pennello le sostanze coloranti prenderanno vita per la prima volta». Così Shozo Shimamamoto scriveva più di cinquant’anni fa sulla rivista del movimento Gutai di cui era tra gli esponenti di punta. E cosa intendesse è stato chiaro giovedì scorso a Genova dove l’ottantenne artista giapponese ha realizzato una perfomance a Palazzo Ducale, in occasione della personale che gli dedica, a cura di Achille Bonito Oliva il museo di Villa Croce. Per terra una grande tela bianca e disseminate qua e là a gruppi (quasi morandiani) bottiglie e bicchieri colmi di colore: l’azzurro, il rosso, il giallo, il rosa, l’oro, l’arancio, il blu. Al ritmo di una musica composta da lui stesso e accompagnato passo passo da un’assistente che gli porge di volta in volta le bottiglie, come in una sorta di cerimonia rituale, l’artista le solleva sul capo e le frantuma sulla tela. Per quasi un’ora, come un vecchio guerriero («Samurai, acrobata dello sguardo» è il bel titolo dato da Abo alla mostra) Shimamoto distrugge le sue bottiglie e nello stesso tempo crea un’opera irripetibile, fatta di macchie di colore e di cocci di vetro. Alla fine saluta con un inchino, tra la folla sorpresa e conquistata dai suoi gesti. «Create ciò che non è mai esistito prima» è stato l’insegnamento del suo maestro Jiro Yoshihara in un Giappone appena uscito dalla guerra e in crisi d’identità. E a quell’insegnamento con i suoi Bottle Crash, sperimentati per la prima volta nel 1956, Shimamoto si è sempre mantenuto fedele. «Mai imitare», era l’altra regola, del Gruppo Gutai che da un lato si rifaceva ad esperienze della cultura giapponese (la calligrafia poco ortodossa, fatta di sbavature e sgocciolamenti, di Nantembo) e dall’altro aveva metabolizzato la filosofia delle avanguardie europee di inizio secolo come il Dada e il Surrealismo. E con queste avanguardie si sentiva in sintonia soprattutto su un punto: quello che conta non è tanto l’opera ma il modo, il gesto, con cui si realizza. Su questa strada, come riconoscerà lo stesso Allan Kaprow, i giapponesi come Shimamoto anticipano gli happening e le perfomance che qualche hanno dopo irromperanno sulla scena dell’arte dall’altro lato del Pacifico. Sono debitori però di Pollock, la cui opera era conosciuta da Yoshihara. Ma se nei drapping dell’espressionismo astratto c’è ancora un barlume di controllo del processo creativo da parte dell’artista, in Shimamoto è il caso a regolare la stesura del colore. Negli Anni 40 Shimamoto aveva anche sperimentato la tecnica dei buchi, senza conoscere Fontana (forse cogliendo una sorta di zeitung o «sentimento del tempo» presente in punti diversi del mondo). Colpiscono a Villa Croce i video in cui Shimamoto a Capri o a Napoli (complice la Fondazione Morra cui si deve anche la perfomance genovese) si fa sollevare con una gru e librandosi in cielo come un angelo sterminatore scaglia i suoi bicchieri di colore ora su un pianoforte ora su una Venere di Milo. I risultati sotto forma di tele o di pianoforti o di veneri gialle e verdi di colore si vedono nell’emozionante percorso di Villa Croce, che aiuta a conoscere e a comprendere la vita e le sperimentazioni del maestro. Come quella installazione-passerella Prego camminate qui sopra, del ”56 dove devi camminare e il tuo passo incespica nei comparti di legno grigi e capisci quanto sia precario il tuo vivere. SHOZO SHIMAMOTO 1950-2008 GENOVA, MUSEO DI VILLA CROCE FINO ALL’8 MARZO