Il fatto del giorno
di Giorgio Dell'Arti
Il fisco italiano sta cercando di mettere il sale sulla coda di Google che, attraverso un complicato sistema di società estere, fa rimbalzare i propri profitti lontano e paga da noi tasse irrisorie. Google adopera lo stesso sistema in tutto il mondo, facendosi forte anche dell’immaterialità dei suoi prodotti. E tutto il mondo lo insegue, specialmente gli americani, i cui agenti delle tasse hanno preteso da Google e dalle altre cosietà che adoperano i medesimi sistemi una descrizione accurata di dove si trova la liquidità di ciascuno. Il bello, o il brutto, è che il grande motore di ricerca ricorre a sistemi del tutto legali e si fa forte di convenzioni tra i paesi stipulate in tempi non sospetti.
• Non gli viene qualche dubbio che, in questo modo, fanno brutta figura davanti al mondo?
Le riporto la dichiarazione resa l’altro giorno a Bloomberg dal presidente di Google, Eric Schmidt: «Sono orgoglioso del sistema di elusione delle tasse applicato da Google. A chi mi dice che si tratta di un sistema immorale rispondo che si chiama “capitalismo”. E noi siamo orgogliosamente capitalisti. Non ho dubbi di sorta su questo». E se ci venissee voglia di adoperare qualche altro motore di ricerca?
Servirebbe a poco. Il sistema di mandare la liquidità in giro per il mondo non è tipico solo di Google. I nostri finanzieri hanno già annunciato che andranno a ficcare il naso, come minimo, anche nei cassetti di Apple e di Amazon. In Francia l’Express ha scritto che Ebay e Paypal denunciano un fatturato inferiore di 50 volte a quello di Germania e Regno Unito. E la Sec, l’autorità di Borsa statunitense, ha messo sotto la lente, oltre a Google, anche Apple, General Electric, Microsoft, Emerson Electric, Illinois Tool Works, Hewlett Packard, Johnson & Johnson, Whirlpool. Tutte aziende che non tengono nelle banche degli Stati Uniti la maggior partye dei loro soldi. Un primo calcolo, a spanne, ipotizza un’elusione complessiva da 600 miliardi.
• E da noi a quanto ammonta il maltolto?
Che sia “maltolto” lo dice lei. Google Italia, quando il mese scorso ha ricevuto la prima visita del fisco, ha subito emesso questo comunicato: «Google rispetta le leggi fiscali in tutti i Paesi in cui opera e siamo fiduciosi di rispettare anche la legge italiana. Continueremo a collaborare con le autorità locali per rispondere alle loro domande relative a Google Italy e ai nostri servizi». Intanto, alla Camera, il sottosegretario Vieri Ceriani riferiva i risultati dei primi accertamenti: tra il 2002 e il 2006 la società italiana di Google non avrebbe dichiarato introiti per 240 milioni e non avrebbe versato 96 milioni di Iva.
• Ma che sistema adoperano?
Google opera da noi attraverso una semplice srl (Google Italia). Questa srl ha firmato un contratto di prestazione di servizi con due consorelle: l’americana Google Inc. e l’europea Google Ireland. “Ireland”, cioè siamo in Irlanda. Google Italia raccoglie pubblicità da noi e riceve dagli americani un compenso di mediazione, come se si trattasse di un qualunque broker. Le fatture invece vengono emesse dalla società irlandese, dove si paga una tassa sui profitti di appena il 12,5% (da noi il 31, negli Stati Uniti il 35). Non creda tuttavia che la società irlandese paghi questo 12,5%: la base fiscale di Google Ireland è alle Bermuda e la filiale con cui opera in Europa non sta in Irlanda, ma in Olanda. La Google olandese ha avuto in concessione dalla Google irlandese la tecnologia con cui opera e restituisce per questo tutti i profitti a Dublino. La ragione di questa triangolazione Bermuda-Irlanda-Olanda è che sia in Irlanda che in Olanda non si tassano i profitti realizzati all’estero. Quindi gli utili provenienti dall’Italia – o dalla Francia o dagli Stati Uniti – sono esentasse. Con questo sistema, avendo un giro d’affari in Europa di 12 miliardi e mezzo, Google è riuscita a denunciare in Irlanda utili pre-tasse di appena 24 milioni. È stato calcolato che l’aliquota effettiva pagata in Europa dal motore di ricerca equivale al 3,2% dei profitti internazionali. Questo in paesi europei dove l’aliquota media sui profitti aziendali oscilla tra il 26 e il 34%.
• Come si spiega questo fatto, che irlandesi e olandesi non tassano i profitti realizzati all’estero?
L’Irlanda ha adottato tutta una legislazione fiscalmente molto favorevole proprio per attrarre capitali dall’estero. L’Olanda non tassa i profitti all’estero dal tempo dei tempi: la sua Compagnia delle Indie, vera padrona del Paese, guadagnava già nel Seicento quasi esclusivamente in terra straniera. L’elemento sconcertante è che gli olandesi, mentre con la loro legislazione aiutano l’elusione, ci fanno anche di continuo la lezione per i buchi nei nostri conti.
[Giorgio Dell’Arti, La Gazzetta dello Sport 16 dicembre 2012]
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