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 2012  dicembre 16 Domenica calendario

BRYAN FERRY - VOLEVO SEMPLICEMENTE ESSERE UNICO


Sull’eleganza ha costruito quarant’anni di carriera. Li celebra con un disco raffinato ai limiti dell’impopolarità.
The Jazz Age è un collage di canzoni dei Roxy Music riarrangiate in puro stile anni Venti, proprio come se a interpretare Do the Strand, Love is the Drug, Don’t Stop the Dance e Avalon
fossero gli Hot Five di Louis Armstrong. Brani rigorosamente strumentali eseguiti dalla Bryan Ferry Orchestra. «Quando uno arriva alla mia età ed è ancora famoso vuole fare solo le cose che ama», spiega Bryan Ferry, sessantasette anni, che esordì nel 1972 con i Roxy Music, la band di cui fece parte anche Brian Eno. «Da tempo volevo incidere un disco senza voce, porre per una volta l’accento sui compositori. I cantanti sono sempre sotto i riflettori, oscurando anche gli
autori più geniali. Ormai da molti anni non ascolto che jazz. Tutto è cominciato con una grande passione per Charlie Parker, poi pian piano sono scivolato indietro, alle cose che ascoltavo da ragazzino, negli anni 1954-55; all’epoca il jazz di New Orleans era popolarissimo in Inghilterra».
Aveva dieci anni e già coltivava il sogno di diventare un maestro di stile come Ellington. A suo padre, un agricoltore del Tyne & Wear, dichiarò solennemente: frequenterò la scuola d’arte. A diciassette anni già vagheggiava la sua forma di rock avant garde. «Fu intorno al 1962 che cominciai ad appassionarmi a Little Richard
ed Elvis Presley», racconta. «In quegli anni smisi di ascoltare il jazz, coltivavo altri sogni, ma quella musica è sempre rimasta in un angolo. Il mio idolo è Coleman Hawkins, un sassofonista dalla carriera lunghissima che spazia dal vecchio jazz al bebop; la colonna sonora dei miei weekend. Ho voluto che questo cd suonasse esattamente come un disco degli anni Venti, quando Louis Armstrong trionfava con gli Hot Five e Duke Ellington era la star del Cotton Club».
Ferry è un seduttore. Sul palcoscenico e nella vita. Sempre impeccabile, proprio come il Duca. Lo studio londinese, tra Hammersmith e Kensington, è un labirinto di stanze, il trionfo del buon gusto, la perfezione nei minimi dettagli: gli Andy Warhol, i pregiati kilim aragosta, i libri d’arte allineati negli scaffali, il servizio da tè in porcellana, le segretarie belle ed eleganti, le gigantografie delle storiche copertine, molte delle quali con visi e silhouette di donne seducenti — Kari-Ann Muller in
Roxy Music,
Amanda Lear in
For your Pleasure,
Marilyn Cole in
Stranded,
Jerry Hall in
Siren.
Le immagini del servizio fotografico con Kate Moss, realizzato per l’album
Olympia
(2010), stanno per essere imballate e spedite a Dubai per una mostra. La sua casa di King’s Road, dove vive con la moglie Amanda Sheppard (trent’anni, ex girlfriend di Isaac Ferry, il primogenito di quattro figli nati dal primo matrimonio con Lucy Helmore) è ancora più carica di tesori:
«Li amministro per i posteri», minimizza, «non si può pretendere di avere un Picasso in esclusiva per l’eternità».
Nonostante le assenze frequenti (novanta concerti nell’ultimo anno) è un padrone di casa attento, esigente, perfetto. Elegantissimo nel suo abito blu. Ha poca voglia di parlare di canzonette, molta disponibilità a raccontarsi invece, a evocare i suoi miti. «Marcello Mastroianni,
La dolce vita…
Ho sempre pensato che vivere a Roma sia un privilegio, dalla prima volta che ho pranzato all’aperto nel mio ristorante preferito, in Piazza del Popolo», sospira. «Trascorro volentieri le vacanze al Pellicano di Porto Ercole, poi faccio un salto a Montenapoleone, perfetta per lo shopping. Qualcuno pensa che sia stupido spendere per l’abbigliamento, ma l’abito fa parte di noi, ci definisce. Questo è un Loro Piana, costosissimo », dice accarezzandosi il sottogiacca. Blu naturalmente. «Adoro le stoffe pregiate. E i viaggi.
Ho scoperto l’India: Mumbai, Udaipur… un matrimonio nel palazzo del maharaja, gioielli come non ne avevo mai visti».
È il perfetto
bon viveur,
oggi parecchio più disponibile di un quarto di secolo fa, quando al Ritz di Londra, in occasione di un incontro stampa per l’uscita dell’album
Bête noire,
per poco non prese a pugni un cameraman francese che insisteva a volerlo filmare dal lato sinistro, che Ferry considera il meno fotogenico. «Sono sempre stato un supertimido, questo è il mio problema», confessa. «Quand’ero giovane era la causa di tutta la mia aggressività. Odiavo le apparizioni televisive: la tv ha sempre rovinato tutto, ha banalizzato la nostra musica. La timidezza mi ha tenuto lontano dal teatro e dal cinema. Pensare che al liceo uno degli insegnanti aveva predetto per me una grande carriera di attore. Diceva che ero perfetto per i ruoli shakespeariani. Ancora oggi se mi immagino come attore, mi vedo sulle tavole di un palcoscenico
più che davanti a una cinepresa. Anche se ho una passione quasi smodata per i vecchi film bianco e nero e i divi di un tempo. Non c’è più nessuno con il carisma di Cary Grant o Humphrey Bogart o Spencer Tracy. E che dire di James Dean?
The Artist è
il film che più ho amato negli ultimi anni. Tra i giovani, il più bravo è Matt Damon. In tv, nient’altro che
Homeland
(“Caccia alla spia”): Damian Lewis è un grande».
Quando esordì con i Roxy Music era la quintessenza del dandy postmoderno, ciuffo e fondotinta. La band suonò come spalla di Bowie-Ziggy Stardust al Rainbow Theatre di Londra nell’estate del 1972. «Una serata memorabile, che accoppiata! », ricorda. «C’era anche Amanda (Lear,
ndr)
che passeggiava su e giù per il palco quella sera». Era la sua compagna all’epoca, poi (si disse) lo lasciò per infilarsi nel letto di Bowie. Come avrebbe fatto anni dopo Jerry Hall, che dopo un lungo flirt con Ferry preferì migrare alla corte degli Stones e convolare con Mick Jagger. La top model texana raccontò i dettagli nella sua autobiografia, Bryan da vero gentleman rispose garbatamente con la canzone
Kiss and Tell.
Ma di quegli anni più del
tombeur de femmes
parla la musica dei Roxy Music, una delle band più influenti della storia del rock. «Volevo essere un artista d’avanguardia, sperimentare nuove cose, essere originale a tutti i costi senza rinnegare il passato. Volevo essere unico», spiega l’artista, oggi più Dirk Bogarde che Elvis Presley. «Con i Roxy fu tutto piuttosto semplice, avevamo le stesse aspirazioni: io, Mackay, Manzanera, Eno… Ora i giovani artisti seguono uno stile preciso, vanno dritti allo scopo. Noi invece ci muovevamo con estrema libertà in territori diversi, eravamo indefinibili, spavaldi, avventurosi. Dopo il secondo album,
For your Pleasure,
sentii il bisogno di lavorare in proprio; fu un modo di rinfrescarmi le idee facendo qualcosa di totalmente diverso dai Roxy Music, interpretando le composizioni che più amavo, al di là del genere musicale cui appartenevano, un crooner moderno. Oggi l’industria musicale è cambiata, è un posto scomodo, cerco di fare del mio meglio in un mondo dove non esistono più neanche i negozi di dischi. Mi sono ricreato pochi mesi fa a Chicago, quando ho scoperto un gigantesco negozio del-
l’usato che vende solo vecchi vinili, esattamente come una libreria. Sfortunatamente, non ho la stessa empatia con Internet, non leggo volentieri i libri sul Kindle e non scarico da iTunes. Ormai ascolto solo jazz e opera: Maria Callas almeno una volta al giorno: preferisco le voci femminili, in tutti i generi. Adoro Bessie Smith, ma anche Marilyn Monroe: nessuno canta meglio di lei
River of No Return.
E i gruppi vocali degli anni Sessanta: Shirelles, Crystals, Ronettes, Shangri-Las». Ci accompagna in un minitour attraverso lo studio di registrazione e l’archivio, di cui si occupa suo figlio Isaac (che ha fornito a
Repubblica
le foto per queste pagine). «Isaac è un film maker, ha lavorato due anni con Mario Testino. È lui che organizza il mio website. Avere giovani intorno è stimolante, mantiene in contatto con la realtà, evita di farti sentire un brontosauro. Sono vecchio, ma ho ancora delle ambizioni».