Vittorio Zucconi, la Repubblica 16/12/2012, 16 dicembre 2012
WASHINGTON
Sei volte fu affondata e sei volte riemerse. Sei volte fu smantellata e sei volte fu ricostruita. “The Gray Ghost”, lo spettro in grigio, come i marinai giapponesi avevano soprannominato con superstiziosa incredulità la portaerei americana USS Enterprise, è scomparsa un’altra volta in questo dicembre 2012, soltanto per prepararsi a rinascere tra pochi mesi. E rinascerà, rubando il nome all’ultima generazione di portaerei nucleari che era stata assegnata a Gerald Ford. Perché la nave che, dalle acque di Midway nel Pacifico fino al Golfo d’Arabia, proietta da settant’anni la prepotenza militare americana in tutti gli oceani del mondo, non può morire senza che con essa si ammaini la bandiera a stelle e strisce.
Nonostante la fama di vascello fantasma che gli esasperati cannonieri e piloti di Marina nipponici le avevano creato dopo averla colpita, vista in fiamme, sbandata, alla deriva e data per morta sei volte, la prima portaerei a portare il nome di Enterprise, quando fu varata nel 1936, non fu mai affondata. Più Rocky Balboa che spettro, “The Big E”, come preferivano chiamarla gli uomini e ora anche le donne che hanno servito, e sono morti, nel suo scafo, ha sempre saputo risollevarsi da quel tappeto dove le armi nemiche, i colpi delle commissioni per il Bilancio e della Difesa e addirittura il fuoco amico l’avevano stesa.
Da quella unità — allora la più grande portaerei che le acque blu avessero mai sorretto — fino alla nuova che sta entrando in servizio in questi giorni, non c’è stata crisi, battaglia, guerra, missione, sulla Terra e nello Spazio, della quale il titano galleggiante non sia stato protagonista. Chi ama l’America, e quello che rappresenta, ha pianto di gioia vedendo il suo profilo stagliarsi sul filo dell’orizzonte. Chi la odia e ne teme i colpi, spesso non ha neppure avuto il tempo di piangere di paura, alla sua vista.
Si disse dal primo giorno di guerra, il 6 dicembre del 1941, che The Big E fosse una nave fortunata e nella cabala del mare non c’è calibro di cannone, potenza di catapulte o spessore di corazza che valga di più. Eppure la dinastia era cominciata male, con un veliero armato comprato dagli inglesi e ribattezzato appunto Enterprise che, dopo uno scontro perdente con la flotta britannica nella Rivoluzione del 1776, preferì darsi fuoco e autoaffondarsi piuttosto che arrendersi, condannando comandante ed equipaggio. Un sacrificio eroico che forse gli dèi dei mari ricompensano da par loro, estendendo la propria protezione sulle navi benedette da quel nome.
Enteprise non era una delle portaerei ormeggiate lungo i moli del porto militare di Honolulu, a Pearl Harbor, quando la flotta di Yamamoto lanciò il suo attacco che oggi si direbbe «preventivo». Manovrava, con le proprie sorelle dal ponte piatto, molto
al largo delle isole. E questa fortunatissima lontananza, che preservò l’arma navale essenziale per una guerra nel Pacifico, appunto la portaerei, scatenò il sospetto, mai davvero sopito, che Roosevelt sapesse in anticipo dell’aggressione e avesse voluto sacrificare qualche superata nave da battaglia per entrare nel conflitto, salvando
i gioielli di famiglia.
Vero o falso che fosse il sospetto, il nemico, Yamamoto,
sapeva benissimo che, non avendo annientato le portaerei, la presenza navale americana nel Pacifico era rimasta formidabile. E infatti, pochi mesi dopo, proprio The Big E condusse la devastante rivincita americana contro la flotta nipponica nella battaglia delle Midway, invertendo definitivamente il corso della guerra. Dalle Midway fino al 1945, quando la portaerei condusse la s u a
ultima missione di quella guerra, l’Operazione Tappeto Volante, riportando a casa nella propria pancia diecimila reduci dall’Europa, non ci fu battaglia nelle quale essa non diede, e non ricevette, colpi, proiettili, siluri, bombe e nugoli di kamikaze decisi a morire pur di esorcizzare il maledetto fantasma in grigio. Quasi tutti i filmati di attacchi di kamikaze che ci sono rimasti vengono da operatori militari imbarcati sulla Enterprise.
Esausta, dopo avere deposto il suo carico di umanità, fu affondata dai tagli al bilancio nel 1947, rifiutata anche come museo galleggiante dal porto di New York, sempre per mancanza di soldi, e smembrata in centinaia di souvenir oggi sparpagliati in musei, accademie e basi navali. Ma rinacque appena quattordici anni dopo, nel 1961, quando il suo nome e la sua aura di fortuna fausta furono ripescati per battezzare la prima portaerei a propulsione nucleare della storia.
Ed era appena una ragazzina di due anni, quando Kennedy le chiese di portare i suoi 5mila uomini e le sue 94mila tonnellate per 342 metri di lunghezza — tre campi da calcio — a guidare la flotta che chiuse l’isola di Cuba nel blocco navale e fermò la corsa pazza verso la prima guerra atomica. Per questo fu lei, la nave fortunata, il simbolo supremo, a essere incaricata di ripescare il primo astronauta americano ripiombato sulla Terra dopo un’orbita attorno al nostro
pianeta, John Glenn.
Navigò dallo Zenith al Nadir del prestigio americano che essa incarnava, dalla missione a Cuba all’appoggio per i bombardamenti sui Vietnam, fino alle operazioni nel Golfo d’Arabia per le due guerre contro l’Iraq e poi per le missioni in Afghanistan. La seconda portaerei chiamata Enterprise ha coperto tutto l’arco e le parabole, i trionfi e le umiliazioni della strategia americana, per ben quarant’anni, fino alla decisione irrevocabile di demolirla, quando il Pentagono ha scoperto, in questo 2012, che per rimetterla in sesto sarebbe stato necessario quasi un miliardo di dollari. Né si sarebbe potuto usarla come museo galleggiante per la necessità di estrarre i suoi due reattori nucleari di propulsione e bonificarne le budella.
La Enterprise che costrinse Nikita Kruscev alla resa e che ripescò Glenn dall’acqua deve morire. E dunque rinascere, sottraendo l’onore del nome al povero Gerald Ford, il presidente travicello che, essendo scomparso, non potrà protestare. E un’altra “Big E” proietterà i muscoli degli Usa sui mari, ancora secondo la dottrina dell’ammiraglio americano Mahan, che già alla fine del Settecento aveva spiegato a generazioni di futuri comandanti, e politici, che chi controlla i mari controlla la Terra. Il fantasma in grigio navigherà ancora. Signora degli oceani, anche se non ancora delle stelle, come immaginarono, esagerando un po’, i creatori di
Star Trek
che diedero proprio il suo nome all’astronave dei signori dello Spazio.