Lorenzo Tomasin, Il Sole 24 Ore 16/12/2012, 16 dicembre 2012
QUANTE PAROLE! È L’AUTONOMIA - È
perlomeno dai tempi di Geografia e storia della letteratura italiana di Carlo Dionisotti che anche i profani sono abituati a considerare la storia nazionale come somma o combinazione di storie locali. O meglio: a considerare qualsiasi fatto della nostra cultura come inscindibile dalla sua collocazione prima ancora in un dove e in un quando. Giacché dal dove, non meno che dal quando, discendono il come e il perché di qualsiasi storia italiana. Ciò che vale per la letteratura vale, a maggior ragione, per la lingua. E ciò che vale per le tradizioni regionali vale ancor più per i loro luoghi di massima concentrazione municipale. Sicché fare la storia delle città d’Italia significa fare la storia d’Italia meglio, forse, che nel suo complesso.
È per questo che, già da alcuni anni, l’editore Carocci ha dato corso a una collana di piccoli volumi dedicati alla storia linguistica delle città d’Italia che, in qualche fase della nostra storia, sono state capitali di uno Stato. Aprì la serie, già nel 2009, Roma (con un volume di Pietro Trifone), e dopo Venezia (uscita nel 2010) arrivano ora, simultaneamente, Torino, Milano e Napoli. Capitali politiche, per molti secoli, ma soprattutto capitali culturali e quindi linguistiche di prima grandezza pur se per ragioni e in forme tra loro completamente diverse.
Torino, la città-madre dell’unità nazionale nella quale l’italiano ha vissuto, per molti secoli, in una convivenza spesso precaria o addirittura nettamente conflittuale con il francese. Le vicende linguistiche della città, ripercorse da Claudio Marazzini, riportano alla natura "anfibia" di cui parlava (con fastidio) Vittorio Alfieri, ma disegnando un paesaggio meno molesto di quello evocato dall’intemperante astigiano. Città anfibia, sì, tanto che si resta ancora in dubbio sull’opportunità di assegnare alla storia linguistica italiana (e non a quella francese) i venerandi Sermoni subalpini, cioè il più antico documento linguistico volgare di quell’area (siamo intorno al 1200, forse dalle parti di Vercelli: ma l’amanuense potrebbe venire dall’altro versante delle Alpi). Nessun dubbio, d’altra parte, lasciano le politiche risolutamente favorevoli all’italianizzazione linguistica dello Stato sabaudo intraprese, ben prima dell’unità d’Italia, da quell’Emanuele Filiberto che rivolgendo la barra della dinastia verso la valle del Po, poneva le premesse di una piena integrazione tra Piemonte e Italia: a lui si deve, nella seconda metà del Cinquecento, l’introduzione del volgare nei tribunali piemontesi.
Milano, la capitale morale che, come tutte le città italiane votate al commercio e al negozio, alimenta fin dal basso Medioevo una piena vitalità del volgare: meno copiosamente attestato, a dire il vero, che per altri municipii padani (colpisce, ed è forse destinata ad attenuarsi in progresso di tempo, la povertà di testimonianze superstiti di testi pratici dell’antica Milano "comunale"), ma autorevolmente rappresentato dalle opere di Bonvesin dela Riva, primo di una lunga serie di scrittori in milanese che si prolungherà fino ai nostri giorni, passando attraverso altri monumenti della letteratura italiana - quindi regionale - , come Porta o Balestrieri. Nel ricostruirne con mano sicura le vicende, Silvia Morgana non manca di tener d’occhio anche il magma delle scritture private, delle lettere e dei documenti che tracciano la storia di una Milano sospesa, ancora ai tempi di Manzoni, tra insegnamento dell’italiano e pratica quotidiana della conversazione in un dialetto progressivamente eroso dall’affermazione della lingua comune.
Ben diverso il paesaggio storico-linguistico di Napoli, le cui linee sono disegnate da Nicola De Blasi con attenzione vie più intensa quanto più ci si avvicina nel tempo alla città di oggi. È scelta non casuale, e anzi funzionale a un esplicito movente culturale: quello, cioè, di scacciare con ogni cura il pregiudizio per cui la lingua municipale è un patrimonio consegnato alla pietosa cura degli storici, ma ormai completamente trascorso, o al massimo sopravvissuto in forma residuale e folkloristica. Se ciò può essere almeno in parte vero per altri centri e per altri contesti, non lo è certamente per la Napoli di cui De Blasi restituisce, con professionale nitidezza, la peculiare articolazione linguistica anche odierna: all’alternativa isterica tra deprecazione della morte del dialetto e esaltazione di una presunta e recente "rivincita" dialettale, la situazione napoletana oppone il sereno equilibrio di una inesausta vitalità.
Attraversando questi volumetti (li si potrebbe chiamare "guide", per l’interesse a suo modo turistico che suscitano), un’impressione non abbandona mai il lettore, e promette di seguirlo anche nelle successive tappe del viaggio, previste a Palermo e a Firenze: l’impressione, cioè, che le grandi storie linguistiche municipali italiane abbiano una singolare ricchezza che ne giustifica appieno la considerazione come vicende autonome, ma insieme ne fa risaltare il cruciale contributo offerto alla vicenda complessiva dell’italiano. Storie di dialetti (nel senso appunto di varietà locali), questi volumi sono insomma anche le storie della lingua nazionale che da quei dialetti e da quelle singole culture trae continuo alimento. Con utile sorpresa sia per chi volle l’italiano confinato a Firenze, sia per chi continua a cercarlo solo tra le carte dei poeti anziché sulla carta geografica.