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 2012  dicembre 16 Domenica calendario

PICASSO E IL SARTO-GALLERISTA

Faceva il sarto, e certamente non si reputava un artista. Avrebbe capito di esserlo col tempo, da quando Pablo Picasso gli disse: «Tu lavorerai per me, e io lavorerò per te». Michele Sapone era nato cent’anni fa, nel 1912, a Bellona in provincia di Caserta. Emigrato nell’immediato dopoguerra prima a Torino e poi a Nizza, aveva portato tutto il suo talento con sé in Francia. Lì, l’autentica star dell’arte del Novecento in carne e ossa, che gli si presentava in déshabillé nella sua villa di Cannes, gli propose di barattare gli abiti confezionati per lui con le proprie opere. Lo metteva al suo livello, e nei sedici anni della loro autentica amicizia non smise di ripetergli: «Sei tu l’artista».
Non con pastelli colorati o pennelli, ma con forbici, ago e filo, Sapone creava i suoi capolavori. Con la sensibilità di chi sceglie una stoffa come un pittore seleziona i colori, di chi accarezza un tessuto come fa lo scultore con le superfici appena plasmate. Oltre duecento pantaloni, un centinaio di giacche e altrettanti cappotti per Pablo, ma poi anche casacche di tweed senza colletto per Hans Hartung, abiti in velluto per Alberto Magnelli, vestiti in pelle scura per Massimo Campigli, mantellini di feltro per Alfred Manessier; e per Gino Severini, che non amava portare la giacca, camice da portare anche senza, pantaloni e bluse da lavoro. Preferiva non essere pagato: come usa tra artisti, amava il baratto. E così iniziò ad accogliere opere d’arte, una dopo l’altra, nel suo atelier di Nizza. Arte e vita, bellezza e lavoro si fondono insieme nella quotidianità laboriosa di un artigiano, senza che se ne renda conto fino in fondo, e senza certamente sapere che quella sartoria era in nuce la Galleria Sapone, che il genero e la figlia avrebbero aperto con una prima mostra nel 1972.
La piccola Aika, nata nel 1944, fin da bambina seguiva il padre quando consegnava gli abiti agli artisti. È restia a raccontare, lì per lì, ma non per timidezza o scortesia. È come se le sembrasse di non avere nulla di speciale da dire. E quando invece si immerge nei ricordi, vi si perde lei stessa, e descrive quei giorni lontani come se fossero trascorsi pochi minuti. E tutto scorre con la nitidezza e il sapore di una pellicola in bianco e nero.
«Picasso mi metteva un po’ in soggezione, talvolta, perché mi fissava con lo sguardo e mi chiedeva di stare ferma immobile. Mi voleva guardare, ma io ero una ragazzina ed ero in imbarazzo», racconta la figlia del sarto. «Succedeva spesso quando stavo a casa loro anche tutto un pomeriggio a giocare con la figlia. D’improvviso mi diceva "non ti muovere" e iniziava a studiarmi. A mio padre più di una volta gli ha detto che era stato lui a crearmi prima dei miei genitori. Tanto che un giorno volle anche dimostrarglielo, e si mise a tirare fuori dalle scatole dei disegni con figure femminili che in effetti mi assomigliavano molto. Ma le aveva disegnate negli anni Dieci o Venti, ben prima che io nascessi!».
A 13 anni Aika vide la prima volta Hartung, uno degli artisti con cui rimasero in contatto per tantissimi anni e che Michele Sapone aveva aiutato a trovare il terreno per costruirvi la casa, alle spalle di Antibes. Ma uno dei ricordi più vivi è quello dei due ritratti che le fece Alberto Giacometti a Parigi, nel novembre del 1959 e nel febbraio del 1960. «Avevo 15 anni e accompagnai a Parigi papà che doveva consegnare molti abiti ai suoi amici artisti: Campigli, Severini, Magnelli. E anche a Giacometti. Avevamo preso il "trein bleu", il vagone letto, e per me fu un’avventura: era la prima volta che vedevo le Ville Lumière», ricorda Aika. «Giacometti mi regalò un’incisione che dedicò al mio primo viaggio a Parigi, ma volle a tutti i costi farmi il ritratto. Lui lavorava soprattutto di notte, ma io ero una ragazzina e per me fece un’eccezione. Papà mi portava all’appuntamento in un caffè, e dopo che lui ne aveva bevuti ben più di due andavamo nel suo atelier. Io dovevo indossare sempre lo stesso vestito e posare per lui alcune ore nel pomeriggio, finché c’era luce. Voleva lavorare solo con la luce naturale. La moglie aveva messo dei giornali sulla poltroncina di vimini, per evitare che il mio abito si sporcasse, e poi alimentava la stufa a legna, perché faceva molto freddo», prosegue Aika. «Le vacanze scolastiche erano finite, ma io invece di restare una settimana a Parigi dovetti fermarmi più di venti giorni: Giacometti non era mai soddisfatto del ritratto! La somiglianza per lui era un’ossessione e continuava a ripetere che quello bravo a fare i ritratti era Picasso, non lui. Ma intanto continuava. Ogni pomeriggio, quando tornavo, mi accorgevo che aveva cancellato qualcosa dipinto il giorno prima, perché non lo convinceva. Vi dipingeva sopra, e poi ancora. E diceva anche che in fondo era meglio così: "Se trovo subito la somiglianza, poi cosa faccio?"». Il ritratto del novembre del 1959 fu un regalo dell’artista al sarto e alla figlia, ma per gli abiti che Michele Sapone gli aveva portato da Nizza insistette che voleva pagare. «Cosa ti devo Michele?». «Assolutamente niente. Noi abbiamo il ritratto e tu i vestiti». «Ma il ritratto è di Aika!», insisteva Giacometti. Così si svolgevano, infarcite di affetto e stima reciproca, le trattative e i baratti tra il sarto e gli artisti.
Solo conoscendo queste storie si capisce a fondo la genesi del tutto singolare e lo spirito peculiare che anima la Galleria Sapone di Nizza, condotta da Antonio Sapone, marito di Aika e suo lontano cugino, con la figlia Paola, nipote del sarto. La galleria compie ora quarant’anni. Quattro decenni di ricordi, che riaffiorano come immagini, e assumono, nei racconti di Antonio e Aika, un nitore che li rende vivi.
«Il mondo dell’arte è un mare in tempesta e tu annegherai prima ancora di cominciare a nuotare!», lo intimorì Hans Hartung quando Antonio gli chiese cosa pensava sul progetto di aprire una galleria e lasciare l’impiego di comandante della marina. «Questo mondo è una jungla e tu sei troppo buono, troppo gentile. Ti sbraneranno in sei mesi!», incalzava Alberto Magnelli. Gli artisti non incoraggiarono la famiglia Sapone in questa nuova impresa. Eppure saranno loro la linfa vitale di un’attività che, con un susseguirsi di mostre ed eventi, giunge fino a oggi. Apparentemente non hanno la stoffa dei mercanti, i Sapone, né il fiuto per gli affari e le speculazioni, di cui possono vantarsi tanti dealers di ieri e di oggi. Dalla loro hanno però quella quotidiana convivenza con l’opera d’arte negli anni, che silenziosamente come un batterio s’insinua dentro di noi, e alimenta quella fratellanza che rafforza e unisce l’elite colta e raffinata del mondo dell’arte: artisti, collezionisti e mercanti con la M maiuscola. Un popolo di alieni che si fiutano l’un l’altro.
Jaqueline Picasso non ha dubbi quando dichiara e ripete ad Antonio Sapone nel 1986: «Hai fatto la più bella mostra di Picasso che abbia mai visto!». E Sonia Delaunay gli confida che i giorni trascorsi con lui a Nizza, in occasione della sua personale presso la Galleria Sapone nel 1975, le avevano restituito la giovinezza che credeva di aver perduto per sempre. Alberto Burri, che aveva disdegnato per anni il rapporto con il mercato e le gallerie, sceglierà Antonio Sapone come suo unico referente, dopo che vi aveva lavorato per la loro mostra del 1984; acquista una casa per trasferirsi anch’egli in Costa Azzurra, a Beaulieu-sur-Mer.
Comprare e vendere opere non è esattamente quello che hanno fatto e fanno i Sapone. Non attingono dal mercato, ma sempre e solo dagli artisti. Che sono amici, fratelli di una grande famiglia immaginaria fatta di uomini che crescono a pane e pittura e li condiscono con la luce.
«Cos’è la luce?», chiede un giorno Antonio ad Hartung. «La luce è tutto», risponde l’artista, «ma è come il tempo per sant’Agostino: se mi chiedi cos’è, lo so; se mi chiedi di spiegartelo, non lo so più».