Giuseppe Montesano, la Repubblica 16/12/2012, 16 dicembre 2012
Victor Hugo in esilio a Jersey
Nel 1853 il grande poeta Victor Hugo, in fuga da Napoleone III a causa della sua opposizione al colpo di Stato con cui il dittatore si è impadronito della Francia, sbarca su una desolata isoletta dell’arcipelago della Manica chiamata Jersey. Là Hugo si stabilisce a Marine-Terrace, una casa di fronte all’oceano, vicina a un cimitero e a un gigantesco e arcaico dolmen. Secondo gli abitanti del luogo la spiaggia intorno alla casa abitata da Hugo è visitata da una folla di fantasmi: il “Decapitato” che nelle notti di luna vaga alla ricerca del riposo eterno, la “Dama bianca” colpevole di infanticidio, la “Dama nera” che è una sacerdotessa druidica che ha sacrificato suo padre sulla pietra del dolmen e la “Dama grigia” che vaga con gli altri ma non si sa bene cosa abbia combinato. Che cosa potrebbe desiderare di più l’inventore del gobbo di Notre-Dame e dei mostri dell’Uomo che ride? Si direbbe che ce n’è abbastanza per creare un’atmosfera degna di Quasimodo e dei suoi terrori gotici, ma non è così: perché, come sta dimostrando l’Hugo-Renaissance che è in corso a Parigi e che ora celebra i centocinquant’anni dall’uscita dei Miserabili, la grande scatola a sorpresa chiamata Victor Hugo è ancora piena di meraviglie. E infatti, nel settembre di quel 1853 in cui Hugo si è esiliato su uno scoglio, arriva a Jersey la poetessa Delphine Gay, che ha appena scoperto lo spiritismo e che, per distrarre i proscritti in esilio, organizza una serata di table tournante, il tavolino che battendo i suoi colpi fa parlare gli spiriti dei defunti. La prima seduta spiritica va male, ma quando Delphine evoca l’anima di Léopoldine, la figlia di Hugo annegata nella Senna, l’emozione è travolgente, e tutto cambia. Con la partecipazione di Hugo come trascrittore dei messaggi spiritici, della figlia Adèle come sensibile ispiratrice degli spiriti e del figlio Charles come medium, le sedute diventano un’ossessione quotidiana, e cominciano i miracoli. Invece del nonno e dello zio evocati nei salotti borghesi in cui fanno furore Le Livre des Médiums e Le Livre des Esprits di Allan Kardec, il tavolino parlante di casa Hugo dà voce, tra gli altri, agli spiriti di Dante, Marat, Carlotta Corday, Platone, il profeta Isaia, Aristotele, Eschilo, Byron, Luigi XVI, Annibale, Robespierre, Maometto, Molière, Galileo e Gesù Cristo: senza dimenticare il “Decapitato”, la “Dama bianca”, la “Dama nera” e la “Dama grigia”. Sarebbe sufficiente a riempire montagne di fogli, ma gli spiriti di Hugo sono grafomani, e così a battere colpi sul tavolino della famiglia compaiono ancora l’asina di Balaam e persino la colomba che Noè lanciò in volo dall’Arca. Fine delle apparizioni? Ma no, perché Hugo strappa parole di saggezza anche ai corpi astrali della Morte, della Poesia e del Santo Sepolcro, per riuscire infine addirittura a far apparire lo spirito, o meglio il sosia astrale, di Napoleone III: ovviamente per rimproverargli le sue colpe e spiegargli come dovrebbe agire. Follia? Ingenuità? Autosuggestione? O forse, come diagnosticherà il dottor De Mutigny, il poeta era affetto da «parafrenia fantastica», una malattia a sua volta degna di entrare in un libro di Borges sulle follie immaginarie? Ma nei due anni in cui il medium Hugo trascrive i verbali delle sedute in cui gli spiriti parlano in versi ben rimati o in una prosa sontuosa in cui spiegano che Hugo è l’erede di Cristo, il poeta Hugo scrive le quattrocento pagine di poesie delle Contemplations, gran parte del poema La fin de Satan, il poema Dieu, la raccolta satirica Les Chatiments, una lettera pubblica indirizzata a Napoleone III, decine di articoli e lettere contro la pena di morte, in un solo giorno scrive 1.600 versi di Solitudine Coeli, un poema che la notte seguente legge alla famiglia riunita, e ha ancora il tempo per consumare i suoi amori adulteri, per aiutare i proscritti fuggiti dalla Francia, per salvare un uomo dalla morte per impiccagione, per farsi fotografare in pose da pensatore in cima al dolmen o mentre scruta l’Oceano, per provare lui stesso a imparare a fotografare, e per dipingere con fondi di caffè, polvere, inchiostro, olio, giallo d’uovo e feccia di vino alcune opere stupefacenti dove appaiono castelli fantasma, presenze oscene, zingare tenebrose, abominevoli incubi, tragici impiccati. Poi, due anni dopo l’inizio delle sedute di tables tournantes, un toc-toc sbagliato comincia a risuonare come un avvertimento della fine prossima dei giochi: Auguste Vacquerie, genero del poeta, chiede a William Shakespeare di dettare un poema inedito, e William, come se niente fosse, comincia a snocciolare i suoi versi in assenza di Hugo, che al suo ritorno si rifiuta sdegnato di leggere i frammenti dettati dall’ectoplasma infedele e colpevole di lesa maestà poetica. Ormai le fantasie dissennate e geniali che nascono dal gioco serio delle tables tournantes vanno tramontando, la realtà incalza, diventa frenetica. Il 25 ottobre 1855 il governo inglese, spinto da Napoleone III, ordina l’espulsione di Hugo e dei suoi figli da Jersey; la sera del 29 ottobre, nel corso di una seduta spiritica, il proscritto Jules Allix è colto da un attacco di pazzia furiosa, e deve essere rinchiuso in manicomio; il 31 ottobre Hugo lascia Jersey per andare a Guernesey: le sedute spiritiche sono finite per sempre. Ma l’incredibile storia di Hugo e delle tables tournantes non lascerà solo una catasta di verbali in deposito alla Bibliothèque Nationale di Parigi, sarà anche un’avventura poetica nuova che trascinerà Hugo a scardinare alcune delle sue certezze. Nascosto e protetto in quella scrittura automatica che precede Breton e il Surrealismo, Hugo scavava nel suo inconscio e nei suoi sogni, lasciando libero sfogo a una parte di sé che oscillava tra la megalomania assoluta e l’esplorazione coraggiosa dell’invisibile. Nel Promontorium Somnii — un libro che inserendosi in questa Hugo-Renaissance è stato appena tradotto e pubblicato dagli Editori Internazionali Riuniti con il titolo de Il promontorio del sogno— molti anni dopo le sedute spiritiche il vecchio poeta scriveva: «Il sogno è un’evasione dell’uomo dalla vita reale. Evasione spaventosa, pericolosa distruzione della prigione, scalata sulle scarpate dell’impossibile, caduta spesso probabile. Questa caduta è la follia…». Solo che la follia colpiva gli altri, amici, figli, amanti, mentre Hugo la attraversava indenne, fiducioso in ciò che scrisse a più di ottant’anni: «Si crede che fine significhi morte. Errore. Fine significa vita». Forse il vecchio poeta si era già organizzato per mandare messaggi dall’aldilà dopo morto, per continuare a scrivere l’interminabile poema della sua vita, per non morire mai. E chissà che il toc-toc imprevisto e fantasmale che fa in certe sere il nostro iPhone non sia la voce del suo fantasma che vuole parlare, dettare, comunicare: chi può dire se quel toc-toc è un errore elettronico o la voce di un poeta che chiede di essere ascoltata?