Antonio Gnoli, la Repubblica 16/12/2012, 16 dicembre 2012
Paolo Villaggio: «Non sopravviverei sapendo che sarò dimenticato»
La figura di Paolo Villaggio si materializza sulla porta finestra dello studio di una villa immersa in un tranquillo quartiere romano. Non distante dalla via Salaria. «È qui per me?», dice con una voce fintamente minacciosa. Fuori, un giardino intristito dall’inverno che incombe. Dentro uno spazio abitato da libri, divani e due pigri labrador vagamente simili al loro padrone. Villaggio è il grande attore di successo, la maschera straordinaria di un’Italia invisibile e maltrattata. Lui, l’uomo che il 31 dicembre compirà 80 anni, preferisce definirsi un clown. «A Paolé, mi diceva Fellini, tu non sei un attore, sei un clown, sei la risposta a tutto quello che la vita ci ha fregato». Eravate molto amici con Fellini? «In certi momenti avevo l’impressione che Federico era tutta l’aria che respiravo. Dopo La voce della luna, facemmo assieme alcuni “caroselli” pubblicitari. Ma era infelice. Voleva fare il cinema. Ma ormai il cinema voleva sempre meno essere fatto da Fellini». Era l’insuccesso legato ai suoi ultimi film? «No, era peggio. È il declino che avvolge gli attori, i registi, noi gente di spettacolo. Tognazzi mi diceva: mi sento giù di morale, non sono più quello del Vizietto e di Amici miei. Se mi guardo indietro vedo che molti sono stati spazzati via. È difficile durare per sempre. Di solito si viene sepolti e dimenticati. Io sto per compiere ottant’anni e non credevo di arrivarci». Eppure è ancora qui. «Mi sento un po’ un’eccezione. In fondo, anche Fellini aveva la certezza che, malgrado tutto, il suo cinema sarebbe rimasto. Mi sta venendo il gradito sospetto che forse anch’io sarò ricordato come Fantozzi». Come è nata questa grande maschera italiana? «Lavorai per alcuni anni come impiegato all’Italsider di Genova. Impiegato per modo di dire: non si faceva un cazzo. Meraviglia assoluta. Una gara a chi produceva di meno. C’era gente, durante l’anno, che si chiudeva per ore nel cesso a leggere La Gazzetta dello Sport. In agosto, un caldo ripugnante, alcuni di noi fuggivano per i cornicioni, andando al mare. L’archivio era il nostro dormitorio. Impiegati che si pigiamavano. L’archivista Poggio aveva la funzione del cane da guardia. Tutti dormivano: non per stanchezza, ma per noia. In questo clima nacque Fantozzi, il vicino di scrivania. L’uomo in grado di attrarre su di sé le peggiori sventure». La inorgoglisce averlo creato? «No, piuttosto mi rassicura. Come sapere che non scomparirò definitivamente». Ma è così indispensabile essere ricordati? «Non sopporterei l’idea che qualcuno mi sopravviva dimenticandomi ». Cos’è: invidia per chi resta? «Si tratta di un sentimento naturale». Intende dire che è invidioso? «Abitualmente. Provai un’invidia più che sottile per Renato Pozzetto che aveva avuto un successo clamoroso con Per amare Ofelia » . Ne soffriva in che modo? «Più che sofferenza era un leggero e costante malessere. L’invidia è un sentimento molto circostanziato. Non ne ho per un grande calciatore, uno scienziato. Meno che mai per un politico. Ma sicuramente per uno che è iscritto alla mia stessa corsa». È spregevole l’invidia? «Assolutamente no. Miserabile è semmai l’ipocrisia. Il dover fingere di essere diverso, di pensarla in un altro modo. La Chiesa in ciò è stata maestra». Solo in questo? «La sua grandezza è aver inventato la fede come rassicurazione per i poveri. Ti dice: la vita è una merda totale, però se segui il mio credo avrai salva l’anima. E poi ti piazza un bel decalogo di divieti, in larga parte sessuofobici: non commettere atti impuri, non desiderare la donna d’altri, non rubare, non uccidere. Ha notato come oggi si finga orrore per l’omicidio ma si assolva ogni guerra, dove uccidere appare come un dovere?». Lei l’ha conosciuta la guerra? «Fu un incubo. Che si materializzò il 2 febbraio del 1941. A scuola, io e mio fratello gemello, sentivamo la lezione del maestro. A un certo punto avvertimmo sopra la testa come il rumore clamoroso di un treno. Era una salva 381 che la marina inglese aveva sparato dal largo di Portofino. Solo che sbagliò bersaglio. La bomba centrò il quartiere dove eravamo tutti noi. Devastando case e persone. Uscimmo, io e mio fratello, tenendoci per mano. Lo spettacolo era terribile. Vedemmo i cadaveri di due donne e un mulo morto. La notte non riuscimmo a prendere sonno. Fu la prima volta che sentimmo nostro padre imprecare contro la guerra». Che mestiere faceva suo padre? «Era un ingegnere di chiara fama. Ma anche un uomo verboso che non sopportava voce umana che non fosse la sua». E sua madre? «Donna di casa. Afflitta da una gelosia assoluta verso il genere femminile. Particolarmente rivolto alle ragazze che ci cercavano. Se una di loro telefonava chiedendo di me o di mio fratello, la risposta di mia madre era: non c’è! E riattaccava». Come reagiva? «Avevo sviluppato un tipo di sofferenza particolare. Ero sempre sulla difensiva. Anche con le fidanzate funzionava così. Dopo un’intera giornata di sproloqui, trovavo il coraggio di dire: ma tu avresti voglia di darmi un bacio». So che è sposato. «Da 57 anni». Un record. «Che si ottiene con molta fatica. Ma ho sempre avuto tentazioni di pochi secondi e un’attrazione fisica per mia moglie quasi patologica». A proposito di legami come è stato il rapporto con il suo fratello gemello? «Per anni fummo una cosa sola. Poi la vita ci ha portati a fare scelte diverse. Lui ha insegnato matematica alla Normale di Pisa, è quello che si dovrebbe dire la persona seria tra i due». Vi sentite? «Raramente. Per telefono. E siccome sa che ogni tanto mi si gonfiano le caviglie, quando chiama non chiede come sto, ma la prima cosa che dice è: caviglie? È strano ma sia io che Fabrizio, intendo De André, abbiamo avuto un fratello intelligentissimo che ci gui- dava. Noi eravamo la seconda fila, quelli dietro e questo ha unito le nostre amicizie». Non vi è andata poi così male. Come fu il legame con De André? «Intenso, sotto il segno dell’amicizia autentica. Quando è morto gli hanno messo l’aureola, le alette, la cipria del poeta. In realtà Fabrizio era esattamente il contrario: simpatico, non sempre, provocatore e, in fondo in fondo, un esibizionista mancato. Aveva un coraggio che a volte rasentava l’incoscienza. E un talento assoluto. A Genova facevamo delle serate al Pozzo Garritta, lui suonava e cantava, io sproloquiavo davanti a una ventina di persone. Fu lì che una sera mi vide Maurizio Costanzo. Rimase folgorato. Mi volle a Roma». E lei andò. «Andai. La prima sera c’era ad assistere allo spettacolo una Roma incuriosita da questo strano comico arrivato da Genova. Ricordo Garinei e Giovannini, Tognazzi, Flaiano che alla fine a forza di ridere cadde dalla poltrona. C’era il critico Sergio Saviane che scrisse una cosa incredibile: pensavo di trovarmi di fronte al solito cabaret e invece ho avuto la stessa emozione che hanno provato gli aztechi quando videro i cavalli degli spagnoli». Cosa lo aveva colpito? «Beh, il mio stile era diverso dal cabaret romano e milanese. Entravo dicendo: non so fare un cazzo. Non scherzavo, tra l’altro». Immagino che lei non abbia mai fatto scuole di recitazione. «E che Totò ha mai fatto scuola? La recitazione con i maestri l’hanno appresa Gassman, Manfredi. Io no». Com’era Gassman, col quale ha fatto vari film? «Vittorio era fantastico. Voleva essere l’attore colto. Nei discorsi infilava parole come “semantico”, “sussunto”, “paratattico”. Parlava una neo-lingua infarcita di vocaboli misteriosi. Sapeva un sacco di cose a memoria. Però era simpatico, allegro in modo teatrale, quando naturalmente non era preda della depressione». Ne soffrì soprattutto sul finale della vita. «Come più o meno accadde ad altri: a Tognazzi, a Manfredi, a Fellini, a Sordi. Quando ti manca il grande successo ti senti perso. Ma la malattia di Gassman era più seria. Una notte, era capodanno, ci precipitammo a Velletri io Pozzetto e Tognazzi. Vittorio era a letto. Catatonico. Poi ci vide e si tirò un po’ su: ma che state a brindà sul morto, disse. E scoppiammo tutti a ridere. Aveva il senso della boutade creativa. Ma non è mai stato rallegrante quanto Tognazzi». Che si era scoperto chef di talento. «Quella sua mania culinaria, che ebbe molto successo, era una tragedia. Grande attore, cuoco killer. Una sera preparò la cena dei 12 apostoli. C’erano i soliti. Tra gli altri Monicelli, Gassman, Fellini non venne, Benvenuti e Marco Ferreri che aveva fatto un sopralluogo in cucina per metterci in guardia. Quella sera Ugo ebbe la netta sensazione che gli elogi fossero una presa per il culo. Pretese che si facesse una votazione segreta. Portò un risotto allo champagne. Noi preparammo i bigliettini». Eravate diventati una giuria. «Di più, un tribunale dell’inquisizione. Suggerii i diversi giudizi: Straordinario, buono, sufficiente, cagata, grandissima cagata, merda totale. Arrivò il momento della votazione. Ciascuno mise il proprio biglietto in un bacile d’argento. Poi Ugo cominciò a estrarre e a leggere: “cagata”, “grandissima cagata”. Si interruppe. Ci guardò e disse: adesso porto tutto da un grafologo e vi rovino. Ferreri era preoccupato». Grande regista Ferreri. «Indiscutibile. Taciturno. Fisicamente orrendo, ma un corteggiatore spietato. E poi: bulimia assoluta. Mangiava tutto quello che vedeva e non vedeva tutto quello che mangiava». Che effetto le fa ricordare questi amici che non ci sono più? «Ora che ci penso non ho mai cancellato i loro nomi dalla mia agenda. È un cimitero la mia agenda». E cosa prova? «Rimpianti zero, commozione zero. Noi attori siamo fatti così, andiamo solo ai funerali. Ma dopotutto questi amici continuano ad esserci. La mia vecchiaia è così grande da contenerli tutti». Vuole dire che è una vecchiaia piena di ricordi? «Ma no, è terribile vivere di ricordi. Lo fanno quelli che non hanno più niente. La vecchiaia è quello che è: una rottura di coglioni. La sessualità si spegne, e fai fatica a trovare le parole. Però ci sono le eccezioni». Per esempio? «Monicelli. Lucidissimo fino alla fine. Non solo un grandissimo regista, ma con straordinaria coerenza diceva sempre quello che pensava a chiunque. Riuscì tra l’altro a far diventare un comico uno come Gassman». Come fece? «Ne comprese a fondo il lato cialtronesco». Cos’è un comico? «È un’eccezione della natura. Scopri all’età di sei anni che sei un diverso, che hai un comportamento atipico. Che fai ridere senza volerlo. Non so se è più un dono o una condanna».