Benedetto Camerana, la Stampa 16/12/2012, 16 dicembre 2012
NON SONO QUELLO CHE ACCARTOCCIA I FOGLI
Frank Gehry è il più innovatore tra i grandi architetti americani, uno dei primi vincitori del Pritzker Prize, il Nobel del settore, nel 1989. L’ho incontrato nei giorni scorsi in California. La sede di Gehry Partners è un «capannone per creativi», parte di un compound occupato da università, agenzie di marketing e società di trading, localizzato tra Venice e Marina Del Rey, nella zona Sud di Los Angeles. Frank mi riceve nella sua stanza nel centro dello studio: dietro le alte vetrate interne un grandissimo open space distende in ogni direzione lunghi tavoli tutti uguali, occupati da grandi e piccoli plastici di lavoro che formano una foresta di progetti in via di ideazione o in costruzione. I materiali sono due, onnipresenti nelle strutture, nei plastici, negli arredi: il legno e il cartone corrugato. La conversazione è rapida, tagliente. Gli occhi di Frank, profondi e vivissimi, tradiscono una leggera inquietudine quando si parla di temi che riguardano il suo passato e si accendono istantaneamente quando si parla di un progetto attuale.
Cominciamo da Los Angeles. Buona parte dell’economia di questa città è fondata da tempo sull’entertainment e sulla ricerca, da cui si sono sviluppate agenzie che operano in ogni settore della creatività e dell’innovazione. Qui, in parallelo al movimento della Funk Art, negli Anni 60 è cresciuta una nuova architettura, fatta di materiali inusuali, anche poveri, libera da dogmi, né moderna né post-moderna. Si è parlato di una Los Angeles School e di una Santa Monica School. È l’ambiente in cui è nato il tuo lavoro, con le tue ricerche
artistiche e i progetti di design, come la serie in cartone Easy Edges, fino alle tue prime residenze private tra Santa Monica e Malibu, negli Anni 70. Oltre al tuo nome, vengono subito in mente altri architetti innovatori che lavorano a LA, come Eric Owen Moss e Tom Mayne con Morphosis. Mi chiedo ora quanto il motore di questa libertà di pensiero sia l’ambiente di questa città, con la luce vivissima del Sud California e il forte mix con le comunità messicane e asiatiche.
«Los Angeles nel passato è stata un terreno molto fertile per lo sviluppo di una cultura innovativa, creativa, per le arti e la scienza, e certo anche per l’architettura. Io sono arrivato qui dal Canada a 18 anni, nel 1947, per studiare al City College, poi ho seguito la scuola di architettura alla University of Southern California dove si sono sviluppate queste nuove idee. I primi anni ho fatto molte cose, anche altri mestieri, e il mio lavoro di architetto e designer ha seguito un lungo percorso di ricerca che si è alimentato di questo ambiente. Infatti i primi clienti che hanno creduto nelle mie idee appartengono a questa classe creativa e aperta all’innovazione, che si muove tra Venice, Santa Monica e Hollywood. La casa a Venice Beach o la sede dell’agenzia di pubblicità Chiat/Day lì vicino sono due esempi molto chiari. Oggi però questo ambiente sta cambiando, anche qui cresce una cultura delle regole conservative, della proibizione, come da voi in Europa e soprattutto nel tuo paese. Forse l’Italia è pionieristica anche in questo! A questa cultura poi si aggiungono i vincoli delle performance della sostenibilità, per esempio gli obiettivi del Leed [un sistema di classificazione della sostenibilità, ndr], che rischiano di ridurre ancor di più lo spazio di lavoro per chi ha talento. Le persone prive di talento cercano sempre di impedire la creatività altrui».
Rolf Fehlbaum, presidente della Vitra, un giorno mi ha detto che gli edifici per uffici da te realizzati per loro sono molto funzionali. Questa affermazione sembra in contrasto con l’immagine che di te ha il grande pubblico, vedi il noto episodio dei Simpson nel quale tu apri una lettera, la accartocci, la butti a terra, ti volti, la riguardi e la forma casuale della carta appallottolata nei tuoi occhi si trasforma in un futuro edificio.
«Tutti i miei clienti, Rolf come gli altri, conoscono la professionalità con cui lavoriamo. Nel progetto della Disney Hall a Los Angeles abbiamo rispettato tempi e budget e l’edificio funziona benissimo per la musica. Il grande pubblico mi vede come quello che accartoccia i fogli di carta per fare un progetto e questo mi diverte ma fino a un certo punto. Qualche settimana fa sono stato invitato a un importante talk show televisivo e il conduttore mi ha chiesto di raccontare quale fosse il mio processo creativo per sviluppare un edificio dopo aver accartocciato dei fogli. Gli ho chiesto di ricominciare l’intervista».
Recentemente hai completato il tuo primo grattacielo, la 8 Spruce Street Tower, che oltre a essere il più alto edificio residenziale di New York è stato accolto con grande favore dalla mai facile critica locale. Paul Goldberger ha scritto sul New Yorker che è il primo edificio costruito downtown che merita di stare vicino al Woolworth Building. La facciata a pannelli di acciaio inox incurvati è del tutto contemporanea e allo stesso tempo sa dialogare con i grattacieli del primo Novecento. Ma l’aspetto forse più rilevante è il costo relativamente basso del progetto.
«È vero, ho lavorato molto sulla facciata per avere un progetto che riuscisse a essere espressivo ma appena poco più costoso di un progetto standard. Le forme incurvate accolgono i bow window che aggiungono molto valore agli appartamenti. È un progetto molto buono per il budget».
Ci parli dei tuoi progetti in Italia e in Europa?
«In passato ho avuto molti progetti in Europa, in particolare in Germania, oltre naturalmente al lavoro di Bilbao. Ora stiamo completando la sede della Fondation Louis Vuitton a Parigi e stiamo lavorando a un progetto ad Arles. Qualcosa forse partirà ancora ma è un momento difficile, in cui molti progetti sono in stand by in attesa di finanziamenti aggiuntivi. In Italia vorrei sicuramente lavorare, ma da voi sono davvero storie infinite. Abbiamo il progetto per l’uscita dell’aeroporto di Venezia, ci lavoriamo da sei anni ma finora non è successo nulla. Ogni tanto vengono a parlarmi qui in studio ma nulla si muove. Riguardo a Torino ho solo bellissimi ricordi, per esempio del Castello di Rivoli che è stato un luogo davvero molto importante per l’arte contemporanea. Mario Merz è stato uno dei miei più grandi amici. Ricordo una sera passata in un bar davanti alla Cappella della Sindone: a un certo punto Mario è salito sul tavolo e ha cominciato a danzare, in silenzio e senza musica e intanto guardavamo la cupola di Guarini.
In passato hai lavorato a progetti per il luogo di lavoro di aziende molto innovative e creative come la Vitra o Chiat/ Day. Ora stai progettando la sede di Facebook a Palo Alto. Come hai pensato il modo in cui i loro giovani collaboratori passeranno la loro giornata in modo produttivo nel nuovo quartier generale?
«Passiamo molto tempo discutendo con i diversi team che operano nell’azienda e ascoltiamo le loro necessità. L’uso di plastici di lavoro durante il nostro processo ideativo facilita la visualizzazione di quello che stiamo pensando. Il loro team è stato molto chiaro con noi riguardo ai risultati che si aspettano da questo progetto. Noi ascoltiamo, diamo risposte e ripetiamo più volte il processo».