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 2012  dicembre 16 Domenica calendario

Il taccuino a spirale da stenografi, con le pagine a righe. Gli appunti fitti fitti, la calligrafia ora incomprensibile ora chiarissima

Il taccuino a spirale da stenografi, con le pagine a righe. Gli appunti fitti fitti, la calligrafia ora incomprensibile ora chiarissima. Le pagine riempite davanti e dietro con la descrizione di un intervistato, le sue abitudini, e non di rado uno schizzo a penna del personaggio, per fissarne l’essenza. Come per Gianni Agnelli: «Capelli bianchi. Profilo grifagno», e giù tre volti di profilo dell’Avvocato, a penna rossa e nera. E invece gli appunti scarabocchiati durante la partite, ogni pagina un’azione e ogni azione il minuto di gioco, la descrizione del fatto e già un accenno delle osservazioni per il pezzo, come in quell’Italia-Austria del 1990, Mondiali a Roma: «6’: calcione di Herzog a Donadoni. Ammonito. 7’: lancio di Ancelotti è out. Spudorato cinismo degli austriaci». Poi la rete decisiva: «33’ gol Schillaci. Donadoni apre a Vialli che arriva sul fondo e cross: Schillaci incorna e Lindenberger smanaccia il nulla». Dagli appunti di Gianni Brera. Taccuini, agende, fogli dattiloscritti: l’officina da cui nascevano i suoi pezzi per Repubblica, Il Giorno, Epoca, Guerino. Ma anche gli accrediti di una vita al seguito dei grandi eventi sportivi, compresa l’emozionante press identity card rilasciata a Brera Giovanni per le Olimpiadi di Londra 1948, o l’ingresso alla press enclosure di Wembley per Inghilterra-Ungheria del 25 novembre 1953, una delle partite più celebri nella storia del calcio. Ciò che resta degli appunti di Gianni Brera — due casse piene di taccuini, 1.300 foto, filmati in vhs, documenti personali, ritagli, manoscritti, volumi — è stato salvato dagli eredi Brera lo scorso anno nella casa al mare prima dell’alluvione di Monterosso ed è ora conservato, in deposito, alla Fondazione Mondadori di Milano diretta da Luisa Finocchi. Si tratta di sette metri lineari di materiali d’archivio (61 faldoni e cinque scatole) oltre a circa 300 volumi, che Andrea Aveto sta analizzando da alcuni mesi. I taccuini sono quelli degli ultimi quindici anni di vita di Brera, prima della morte avvenuta il 19 dicembre di vent’anni fa in un incidente stradale. Torrenti d’inchiostro, migliaia di pagine scritte, vissute, sofferte. Se qualcosa fosse lecito rubare, per non dire imparare dal metodo Brera, è proprio quello spendersi senza soste, quella generosità nel darsi e nel calarsi nell’evento da seguire, l’umiltà e la capacità di osservare ogni dettaglio, e fissarlo subito su carta, con sintesi fulminee. A volte un solo taccuino contiene gli appunti di una sola partita, e sul retro del cartone rigido il riferimento: «Inter-Juve 0-3 al 15’ del 2°t, vado via. 1-3 al 17’», perché all’epoca chi scriveva il pezzo sulla partita se ne andava prima della fine, lasciando al cronista più giovane il compito di seguire gli ultimi minuti. Brera appunta le formazioni, la disposizione tattica e subito le prime osservazioni, a volte il pronostico: «Spira scirocco umido e caldo. Terreno ben inerbato». Oppure, prima di un Verona- Torino del 1985: «Pierin Dardanello mi fa notare come siano civili i veronesi che mandano uomini a spegnere tricche tracche (fumogeni) sul tartan. Sono i soli al mondo. (Caro Pierin, per- derai 3-1)». Poi la cronaca, con calligrafia ben visibile, perché quando bisognava dettare a braccio, di notte, non sempre l’illuminazione degli stadi veniva in aiuto. Ci sono annotazioni meticolose sulle partite di basket nell’Olimpiade del 1984, con la cronaca di un Brasile-Italia letteralmente canestro per canestro, o sul torneo di boxe, sull’atletica, sulla ginnastica artistica, tutto con umiltà da scrivano. Poi gli appunti delle interviste, i personaggi descritti fin dalle loro abitudini mattutine. Enzo Ferrari: «Al mattino a Maranello, colazione con i piloti (vecchia casa colonica). Cereo, bianco. Alle 7.30 gli portano 12 quotidiani (di cui 3 sportivi). Un bicchiere di caffellatte (caffè d’orzo, mai caffè). Legge un’ora». E Silvio Berlusconi, da lui ribattezzato Capitano: «Capitan Berlusconi, Arcore. Mi affaccio al giardino neoclassico dei Casati di Soncino. Prato all’inglese. Limoni in serra. Fagus purpurea, querce americane, palombelle, tortore tubanti. Ammiro scultura di Pietro Cascella, forse un po’ eccessiva. Poi, in accappatoio bianco, il Capitano… Palestra, sala massaggi con tutte le tv che il C. segue per controllare la concorrenza. 50 anni. Ginnasiarca. Lo rimprovero. Ammette che l’inventore del jogging è morto d’infarto…». Gianni Agnelli: «Si alza e si mette contro luce e io non vedo le sue rughe, e poi lo chiamano dalla Svezia e salta su come un grillo… Rummenigge formidabile, tra Riva e John Charles, dice…». E i profili di Walter Bonatti, con l’intrigo sul K2 e i giudizi sui protagonisti («Compagnoni è un gesuita, Lacedelli è un semplice, Desio non sa riconoscere di aver sbagliato»), artisti come Renato Guttuso o Aligi Sassu («Aligi furens»). Ma il taccuino torna buono anche per ricordare cene speciali, con il disegno della tavolata e la descrizione delle portate e dei vini, oltre agli inevitabili commenti: «Piedini di vitello e cannellini, ma rimpiango i borlotti…Tizio sembra un barbone in tight…». Brera scrive, scrive tutto, sempre armato di penna e taccuino, scrive senza sosta. Anche la sera, prima di andare a letto e magari dopo aver vergato decine di cartelle per lavoro, annota sul diario cosa gli è capitato durante la giornata. Perché nell’archivio sono conservate tutte le agende dal 1971 al 1992, così da quella del 1982 ecco l’epopea dell’Italia di Bearzot, passando dal tedio dei giorni atlantici di Vigo («Piove. Malinconia… Ancora qui per 25 giorni. Che barba, ohi»), alla sorpresa per il trionfo sul Brasile («Gesù… ho perso la scommessa e ora dovrò portare il saio», perché era stato tra i più pessimisti alla vigilia), fino all’apoteosi di Madrid: «Italia tri-campeon mundial. Bearzot difensivista ad honorem». E proprio in quel periodo c’è una lettera di complimenti da parte di Eugenio Scalfari in cui il fondatore di Repubblica sintetizza cioè che era, davvero, Gianni Brera: «Voglio ringraziarti per la bravura con cui copri il servizio, con l’impegno del vecchio maestro e del ventenne entusiasta…». Il segreto, in fondo, era tutto lì. GIANNI CLERICI «Come scriveva, Brera?» è l’assunto che mi prescrive la Signora Maestra, come non cesso di definire chi mi proponga un tema a soggetto. Non certo come credette di ribattezzarlo un famoso letterato, che immaginava, come molti della sua lobby, che lo sport rappresentasse una diminutio: “Il Gadda dei poveri”, lo chiamò, non sapendo, in fondo, di pronunciare una lode. Chissà, alla fin fine, chi sarà stato il più letto tra loro? “ El Brera, mi el legi semper”, mi dissero un numero di persone che, per l’umiltà economica degli italiani degli anni Cinquanta e seguenti, mai si erano potuti permettere altro che il giornale. Non solo la partita, leggevano, per raccontare la quale Gioàn aveva escogitato degli schemi strutturali che meriterebbero uno studio, oltre alle pagelle, ora indispensabili, ma fin lì inesistenti, anche negli scritti dei migliori predecessori, Bruno Roghi e Carlo Bergoglio detto Carlin. Leggevano tutti l’Arcimatto, un diario pubblico in cui è racchiusa un pezzo di cronaca d’Italia. Ma ritorno al mio compito, dire come scriveva. Scriveva una lingua in cui mai dimenticava l’amatissimo Teofilo Folengo, Gerolamo Cardano e insieme il De Gobineau di Mademoiselle Irnois o Le Mouchoir Rouge che aveva tradotto, per non parlare di Carlo Porta. Il giorno in cui la nostra concittadina Maria Corti ebbe a definire il mio gergo “lombardese” Gianni affermò: «L’hai rubata a me, quella definizione. Perché, se tu scrivi un lombardinglese, io sono arrivato prima con un francolombard. Qualcosa di simile a Cavanna». Chissà che opinione aveva, di quell’italiano nuovo, il famoso letterato. E di tutti i neologismi che ha portato con sé il breriano, da Abatino a difensivismo, da azzurrini a centrocampista. Come scriveva Gianni? Di fretta, gli articoli, per la tradizionale necessità di telefonarli alla svelta, specie la sera, dopo quei match che finivano tardi. La volta, a Torino, che mi presentò a Mario Soldati, uno dei miei tre zii adottivi (un altro era Giorgio Bassani) ormai libero dal mio umile pezzetto di spogliatoi, stavo dettando le prime due cartelle al telefono, mentre Gianni ancora scriveva la terza. E a Roma, alle Olimpiadi del ’60. Mentre un altro celebre e dimenticato articolista chic del Giorno si chiudeva a chiave in una stanzetta della redazione a comporre, Gioàn e io gareggiavamo a chi scriveva più svelto il suo pezzetto, beninteso con l’Olivetti Lettera 22. Mi batteva sempre, e non solo nella qualità. Arrivava a venti righe in sei minuti, io non mi staccavo da otto. Poi le commedie. Nessuno ricorda che, insieme a Gianni, tentammo invano di scrivere tre commedie, L’Amore è NATO, El General Pirla (da Plauto, in lombardese) e El zio Pistola (su Fidel Castro, addirittura). Stufi degli imitatori di Brecht e della relativa lobby marxista, proprio a Parigi dov’eravamo stati per commentare il mondiale di boxe tra il fenomenale sordomuto D’Agata e il pied noir Halimi, ci era venuto in mente, a una rappresentazione di Feydeau La palla al piede ché da noi qualcosa di simile non esisteva. Ricordo di aver portato la prima — o la seconda — delle nostre commedie inedite a Paolo Grassi, che di Brera era stato compagno di studi. Ricordo la sua sorpresa quasi sdegnata, nel domandarmi: «Certo, Brera. E anche lei, giornalista sportivo? ». Giornalista sportivo. Un’etichetta che accompagnò Gioàn per tutta la sua carriera come un marchio d’infamia, la J di journalist, diceva, tanto simile a quella dello J di juden, impressa nella stella gialla, sull’omero destro. Aveva scritto, Brera, più di un libro — ne ho ritrovati nella mia libreria non meno di dodici, generosamente autografati — ma era giunto al suo terzo romanzo, scritto in tempi più lunghi dei primi due, strappati in quindici giorni alle vacanze estive di Monterosso. Un altro genio, un sommo editor della Garzanti o forse della Bompiani, gli inviò un biglietto che gli farei ingoiare, se fosse ancora vivo. «Pubblicheremo il suo romanzo nonostante tutte le riserve, soltanto grazie alla sua notorietà giornalistica». Ricordo la delusione, addirittura l’afflizione di Gioàn, nel commentare: «E se avesse ragione? Forse ho finito, con la narrativa». Ma ho terminato le misure, quelle che, per tutta una vita, ci hanno incorniciati, noi giornalisti. Vorrei solo dire che per sommo rispetto della sua vita intima ho rifiutato di scrivere una biografia del carissimo Gioàn.Leholasciate,lelascio,achil’haconosciutomeno bene di me.