Riccardo Luna, la Repubblica 16/12/2012, 16 dicembre 2012
I PIONIERI DELLA SCIENZA FAI-DA-TE
Chi sono i biohacker e perché è importante conoscerli? Partiamo da qui. Qualche settimana fa Mike Loukides, sull’O’Reilly Radar, uno degli osservatori più autorevoli dell’innovazione, ha scritto: «Gli ultimi quarant’anni di storia dei computer hanno dimostrato di cosa è capace la cultura hacker. Ora stiamo per vedere gli effetti di quella cultura sulla biologia. Grandi cambiamenti nel modo in cui viviamo sono in arrivo». Secondo Loukieds per la scienza siamo dove eravamo per i computer agli inizi degli anni Settanta. I computer esistevano anche prima. Ma erano pochi e il loro uso riservato ad alcuni professionisti. Poi sono arrivati i dilettanti, gli appassionati. Come Steve Wozniak che nel 1975 si costruì da solo un personal computer. Ma non era l’unico: centinaia di persone in tutto il mondo stavano facendo la stessa cosa. Ed iniziò la rivoluzione digitale che non fu merito di una sola persona, ma di un movimento: «Ora è il momento dei biohacker: rompere i confini dell’accademia e dei laboratori
di ricerca».
Va chiarito che in questo contesto la parola hacker ha una valenza positiva: parliamo di appassionati di tecnologia che hanno come valori la trasparenza, la
condivisione e la partecipazione. La rivoluzione digitale ha una chiara origine hacker. Lo stesso fenomeno starebbe capitando nel mondo della scienza e della biologia in particolare. Con quali obiettivi? E soprattutto:
è pericoloso?
Facciamo un passo indietro. La prima citazione risale addiritura al 2001 quando, su un giornale di San Francisco, Annalee Newtiz scrisse che stava arrivando l’ora dei biopunk (espressione usata spesso come sinonimo di biohacker). Allora il focus era molto sulla liberazione dei dati del genoma umano: “Lasciateci fare quello che vogliamo con la nostra biologia!”, era il grido di battaglia. Per un bel po’ della cosa non si è parlato. Fino al 2010 quando Meredith Patterson, nel corso di un simposio all’università della California a Los Angeles, presentò il primo Manifesto Biopunk: «Noi rifiutiamo la convinzione generale che la scienza debba essere riservata solo alle università milionarie, ai laboratori delle corporation o del governo». Può sembrare molto velleitario, ma il fenomeno ha preso piede, conquistando le pagine dei giornali e le ribalte delle grandi conferenze mondiali. Parliamo di una nicchia? Ancora sì, ma in espansione costante. Anche grazie al crollo dei prezzi per gli strumenti, oggi negli Stati Uniti ci sono almeno due grandi laboratori per scienziati hacker, uno a New York e uno a San Francisco; a Londra ne è stato aperto uno qualche giorno fa. Secondo chi li dirige non ci sono rischi: «Non usiamo patogeni. Sono posti dove tutti possono avvicinarsi alla scienza in maniera sicura» è la risposta. In ogni ca-
so appare evidente che «c’è un cambio epocale nella scienza verso l’adozione di strumenti sempre più aperti, e questo dà più potere agli scienziati ma alimenta un’onda di dilettanti appassionati», come racconta Alessandro Delfanti, 37 anni, docente di nuovi media alla Statale di Milano e autore di un saggio sul tema in uscita nel 2013.
Come accade per i computer, così per la scienza ci sono vari livelli di
hacking.
Uno più generale è quello dell’apertura dei dati scientifici ai fini di ricerca. A partire dalla pratica di fornire accesso senza limiti agli articoli scientifici: «Il 20 per cento della letteratura scientifica mondiale è in
open access
» racconta Delfanti. In quest’ottica si può considerare biopunk persino la virologa Ilaria Capua che nel 2006 si rifiutò di consegnare a una banca dati chiusa la sequenza genetica del virus dell’aviaria perché, disse, davanti a una tale emergenza era giusto che tutti i ricercatori del mondo potessero dare il loro contributo. Quel rifiuto ha cambiato le regole dell’Organizzazione mondiale della sanità. Sempre parlando di apertura dei dati, ha fatto un certo scalpore qualche mese fa la scelta di Salvatore Iaconesi (lui sì, un hacker in senso tecnico), di condividere in Rete il contenuto della sua cartella clinica dove gli era stato diagnosticato un tumore al cervello: «La mia cura
open source
ha generato una discussione globale» e sta aiutando Iaconesi a curarsi meglio. C’è poi il livello della partecipazione attraverso quello strumento che nel mondo del web si chiama
crowdsourcing.
O anche solo attraverso i feedback sul modello di Tripadvisor. Come fa
pazienti. it,
la startup creata dalla odontoiatra Linnea Passaler per condividere le valutazioni dei pazienti sui medici e le strutture sanitarie: a due anni dal varo gestisce un centinaio di richieste al giorno ed è diventato un punto di riferimento.
Un livello più complesso è la battaglia per un uso diverso dei fondi per la ricerca che sta facendo Camillo Ricordi. Erede della famosa famiglia di editori musicali, Ricordi ha da tempo stabilito un centro di eccellenza contro il diabete a Miami. Qualche anno fa si è convinto che alcune malattie rare non saranno mai curabili perché non interessanti economicamente; e che per altre malattie lo scopo delle case farmaceutiche è quello di prolungare il trattamento piuttosto che ottenere la cura definitiva. Ha quindi fondato Cure Alliance, un progetto globale «per dire basta a quelli che si approfittano delle sofferenze delle persone e fare la differenza distribuendo i fondi per la ricerca per lo sviluppo di nuove cure».
Infine c’è il fai-da-te. Per accreditare il fenomeno biohacker negli Stati Uniti sono state raccontate decine di storie di scienziati che avevano lasciato i loro laboratori per continuare la ricerca in casa dopo che un parente era stato colpito da una malattia grave e non curabile. In Italia qualcosa del genere è accaduto nel 2009 con il giovane ingegnere torinese Riccardo Prodam. Lavorava presso un grande gruppo bancario, quando il papà venne colpito da un ictus: allora si mise a studiare un sistema per decifrare quello che il papà pensava. Nacque DreamBrain, un caschetto che ha fatto molto discutere attirando attenzioni internazionali. Fu in seguito a ciò che l’amministratore delegato di Unicredit Federico Ghizzoni decise di affidare a Prodam il neonato laboratorio innovazione del gruppo bancario. E qui Prodam ha appena brevettato un sistema di riconoscimento biometrico attraverso la scansione delle vene del cliente. Se verrà adottato, il bancomat potremmo farlo mettendo la mano in uno scanner. Un vero colpo da biohacker.