Arianna Finos, la Repubblica 16/12/2012, 16 dicembre 2012
ANG LEE
Si racconta malinconico anche quando sottolinea un concetto con una breve risata, seduto composto sul bordo di un divanetto del Le Bristol in un’uggiosa mattinata parigina. Ang Lee è in vena di riflessioni e bilanci esistenziali: «Per me è arrivato il momento della verità — sospira il cinquattottenne cineasta taiwanese — l’ora di capire che artista voglio essere e soprattutto chi sono davvero». Pochi registi sanno unire finezza psicologica e padronanza assoluta della macchina da presa come lui. È stato capace di raccontare con sensibilità infinita l’amore tra due cowboy ne
I segreti di Brokeback Mountain,
come di rileggere il wu xian, il genere cinese di arti marziali, conquistando Hollywood con gli iperbolici combattimenti sospesi per aria de
La tigre e il dragone.
E l’uomo è interessante almeno quanto i suoi film.
Nel corso della sua carriera, iniziata al College of Art di Taiwan nel 1975 e proseguita all’università di New York (dove nell’83 è stato assistente del primo film da studente di Spike Lee), ha firmato una dozzina di opere
equamente divise tra pellicole da grande intrattenimento, film indipendenti e disastri commerciali. Il bottino è impressionante. Tra i tanti premi, due Oscar, due Orsi d’oro berlinesi e due Leoni d’oro veneziani.
Il «momento della verità» evocato da Ang Lee si concretizza in
Vita di Pi,
un film ambizioso, grandioso, spirituale, sontuosamente tecnologico. Tratto dal successo editoriale del libro omonimo di Yann Martel (vincitore del Man Booker Prize nel 2001) e giudicato intraducibile sul grande schermo, sarà invece nelle sale dal 20 dicembre. Racconta l’avventura del giovane indiano Piscine, detto Pi, che perde la famiglia in un naufragio e si ritrova sull’Oceano Pacifico a condividere una scialuppa con una tigre. «È un film per famiglie, anche se non proprio per bimbi», dice Lee. «È un’occasione di discutere di argomenti spirituali. Diciamo anche un film perfetto per l’atmosfera natalizia pur non trattando una storia cristiana ». Da questo punto di vista il giovane protagonista, infatti, abbraccia contemporaneamente la religione ebraica, quella musulmana e l’induismo. «Ma la religione non è altro che un fenomeno sociale. Mentre quando accade che un ragazzo e una tigre sono naufraghi nell’oceano e sono soli, la vera domanda è: cosa è Dio? Ecco, il mio film esplora l’afflato che abbiamo verso qualcosa di sconosciuto che chiamiamo Dio. Non offre una risposta ma un’esperienza, anche cruda e difficile, ma che vale la pena di fare se possiamo condividerla».
Lo sguardo si perde nel vuoto. Alla domanda su cosa significhi per lui aver fatto questo film segue un lunghissimo silenzio. Poi la risposta, sorprendente: «Per me rappresenta la perdita del paradiso. Finora avevo vissuto una vita confortevole, e realizzare
Vita di Pi
all’inizio mi era sembrata un’esperienza avvincente. Poi, alla fine, guardandomi indietro, ho capito che avevo perso qualcosa lungo il tragitto: l’innocenza». Sorride amaro, e spiega. «Sui set mi sono sempre sentito un ragazzino. Facendo questo film anche come produttore semplicemente ho dovuto assumermi delle responsabilità — ad esempio
fronteggiare gli studios di Hollywood — e quindi diventare adulto. E questo, per un eterno Peter Pan come me, è terribile». Il tono è davvero addolorato: «Tutti noi siamo in grado di ritrovare sempre, in un modo o nell’altro, il nostro piccolo paradiso, un posto accogliente in cui vivere. Però quando arriva il momento di riconoscere che quel paradiso è un’illusione, beh, quello è un momento triste». Pausa. «Diciamo che sto invecchiando». Ancora pausa. «Ma forse posso ancora, di tanto in tanto, fare finta di avere il cuore di un bambino».
Sposato da trent’anni con la stessa donna, Ang Lee è padre di due figli maschi ormai grandi. «Penso di essere stato un genitore decente, ma so anche di non essere stato un padre
molto presente. Mia moglie Jane si è sempre occupata della loro educazione, come di tutti i problemi pratici della famiglia. Io sono un sognatore. Ma proprio in quanto tale credo di essere stato una fonte d’ispirazione per i miei figli, penso di averli spronati a esprimersi, e anche di averli resi fieri della mia arte. Per loro sono una sorta di modello». Il maggiore disegna fumetti: «È un grande visionario». Il più piccolo fa l’attore: «Gli ho sconsigliato di prendere la mia stessa strada, proprio come mio padre fece con me. Ma ogni figlio deve provare al padre che ha sbagliato. È proprio così. Io non ho mai mancato di rispetto a mio padre, ma ho passato la vita a dimostrargli che si sbagliava».
Da trent’anni Ang Lee vive a New York, a distanza di sicurezza da Hollywood, con la quale ha un rapporto difficile. L’industria gli rimprovera diversi flop colossali. Il più clamoroso è stato il film sull’incredibile Hulk: «Ho preso il fumetto troppo sul serio: Hulk è un personaggio stupido e io ci ho costruito un intero dramma psicologico intorno. È che dopo il successo de
La tigre e il dragone
pensavo che avrei potuto fare quello che volevo. Avevo preso un film di genere cinese e l’avevo elevato a qualcosa di diverso. Il pubblico asiatico l’aveva trovato strano, ma l’aveva amato. E le reazioni nel resto del mondo erano state sorprendentemente forti. Ciò che non avevo capito è che in America il fumetto è una istituzione intoccabile. Violarne i codici ha provocato una reazione rabbiosa dei fan. Sono stato il regista sbagliato del film sbagliato. E pensare che avevo in mente una sorta di
La tigre e il dragoneamericano,
pieno di riferimenti alla guerra fredda, alla guerra nucleare anni Cinquanta, ma anche a quella in Iraq che era appena iniziata. Perché per me “il dragone nascosto” dell’America (il titolo originale del film è
Hidden Dragon Crouching Tiger, ndr)
è la guerra, la violenza».
Ang Lee, che ha raccontato l’America omofoba e quella hippie di Woodstock, è convinto che gli Stati Uniti siano «un posto violento dove tutti possono possedere e impugnare un’arma, un posto in cui non mi sento mai davvero al sicuro». Eppure non
ha perduto l’amore che trent’anni fa lo spinse a lasciare Taiwan: «Gli Stati Uniti sono un posto diverso da qualsiasi altro. Non è un paese unito da una cultura, ma da un’idea. E la gente vive insieme per questa idea. L’idea di libertà. L’America ti lascia essere te stesso più di quanto sia permesso in qualunque altro posto al mondo. Ed è questo che la rende speciale». Col tempo ha imparato anche a convivere con la doppia anima dei migranti. «Io sono cinese. I miei figli sono un miscuglio». Di Taiwan ha ereditato l’amore per il cibo, protagonista in molti suoi film, da
Banchetto di nozze
a
Mangiare, bere, uomo, donna.
Anche in
Vita di Pi
il protagonista si racconta preparando e servendo pietanze all’ospite. «Cucino solo cibo cinese, ma sperimento. Mi serve per rilassarmi, scacciare i pensieri. In casa mia si è sempre parlato di cibo. Nella cultura cinese è una cosa importante, un modo di relazionarsi alla vita, una filosofia, proprio come in Italia. È un momento altamente creativo. È come il cinema. Il sapore che hai in mente, come la scena di un film, è un concetto astratto. Usando gli ingredienti giusti puoi trasformarlo in qualcosa di reale. Ma per scoprire cos’è e come è venuto devi per forza assaggiarlo».