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 2012  dicembre 16 Domenica calendario

L’UOMO CHE PARLAVA A UNA FOGLIA DI PLATANO

Aldo Busi è lo scrittore più solo che esista. C’entrerà di sicuro il carattere, e la sua interazione con la sociologia spicciola del campo letterario: non fa parte di gruppi, non chiede favori, litiga e rompe le scatole a tutti. Ma le ragioni profonde sono altre, migliori. Nulla gli riesce più alieno della moda stucchevole che obbliga oggi gli autori a spacciarsi per i nostri rassicuranti vicini di casa. Al vantaggio di restare straniero, ospite, inquietante, Busi non rinuncia dai tempi degli esordi, e in questa chiave si potrebbe leggere perfino il suo rapporto con la televisione più trash: falsa prossimità, distacco siderale (parole chiave: star e ospitata). Anche i titoli dei suoi libri, assurdi e memorabili, alludono a questo. Non è un caso che l’ultimo, El especialista de Barcelona, suo atteso ritorno al romanzo dopo anni di silenzio, suoni addirittura in altra lingua.
Gli ingredienti sono i suoi soliti, ma radicalizzati all’estremo. In primo luogo un io narrante ubiquo ma sprovvisto — solo il pregiudizio più miope può far credere il contrario — della minima traccia di narcisismo: non mendica amore, non cerca vantaggi, non pretende gli si ascriva virtù se non quanto, kantianamente, dovrebbe essere moralità universale — non ferire, non sopraffare, non sfruttare, non approfittare. Suo interlocutore è una foglia di platano, resa malconcia da un elicotterino giocattolo, sul punto di cadere eppure ancora sulla breccia, che lo ascolta mentre lui le spettegola dalla sua panchina preferita sulla Rambla di Barcellona. Prosopopea patetica, variazione sul topos antichissimo della fragilità umana da Omero a Ungaretti via Giacosa? Tutt’altro.
La foglia replica, rintuzza, rimbecca, sfotte, minaccia perfino di anticipargli i colpi di scena se non si decide a tagliar corto con le digressioni (al che lui: «Sei proprio una boccalona. Non hai ancora capito che la trama sono io e le digressioni quelle altre?»). Digressioni che sono in effetti la vera sostanza del romanzo, pagine e pagine senza smagliature in cui l’autore dispiega il suo arsenale inesauribile di lirico, aforista, saggista, trattatista, intercalando l’ordine in apparenza caotico con cui si presentano gli avvenimenti, raffinata orchestrazione di un narratore che si proclama affetto da dimenticanza volontaria.
Poi ci sarebbe la trama, una parola che Busi disprezza, e allora meglio dire il tema o i temi. Intorno alla figura del protagonista, un professore universitario ossessionato dalla bassa statura, specialista di minuzie letterarie nonché autore di romanzi di insuccesso, che sta per sposare il suo giovane e statuario convivente gay, si dispone un fondale di una ventina di personaggi (ex moglie, figli veri o putativi, amanti, marchette) legati tra loro da un labirinto di rapporti inconfessabili, sordidi, meschini, deliranti, e proprio per questo disperatamente normali. Un trionfo della morte, una sacra rappresentazione da tardo Medioevo, fatta più di universali fantastici che di vere e proprie psicologie: la famiglia, il segreto, l’inganno, la grettezza, la sciatteria, il dolore inutile.
Al suo centro, come in altri libri di Busi, il mito androgino di una donna-uomo onnipotente e temibile, tenera e corrotta, madre e padre di ognuno, regista di tutti i destini, sintesi e deflagrazione di ogni possibile contrario.
Coi suoi personaggi, Busi instaura un rapporto singolare. Loro lo sfruttano, lui li serve senza reagire: cucina, lava, accudisce, e soprattutto ascolta, tanto più mite nella storia quanto più sarà accanito nel racconto. Una cosa sola non fa: parlare lui, dialogare con loro. Per questo c’è la foglia della Rambla. Non obbietta, non critica. Non pretende nulla dagli altri (e tutto, invece, da sé). Li lascia essere, chinandosi là dove ogni altro si ritrarrebbe, ferito nel gusto prima ancora che nei sentimenti morali. Tra disprezzo e pietà, è la pietà a prevalere. Una pietà, però, che per essere tale davvero prescrive distanza. Busi non permette a nessuno di toccarlo.
È come se, con El especialista de Barcelona, avesse deciso di sancire una volta per sempre il suo essere solo: «Mi hanno respinto tutti, proprio come mio padre e mia madre dalla nascita: che siano benedetti». Politica, più che poetica, d’autore. Perché sia libero lui, è necessario siano liberi anche loro: «Da bambino un po’ mi dispiaceva di non essere Dio e non sapevo, sciocchino che non ero altro, di struggermi per niente, perché già a dieci anni se fossi stato Dio non avrei cambiato una virgola in niente e in nessuno, non sarei stato tanto egoista da togliere agli esseri umani la soddisfazione di farcela, di non farcela e di ritentare da soli».
Lo splendore della lingua fa il resto. Il suo stile è una zona di rispetto, un braccio teso oltre il quale non è dato accostarsi. Nutrito della più consumata arte retorica, è l’opposto di qualunque retorica. Non mira ad attrarre, a persuadere, a tirare dalla propria, ma appunto a tenere a distanza: nessuna empatia a buon mercato. Due ritmi opposti lo innervano. Il primo è accumulativo, strabordante, contagioso, sfacciato e sovraccarico come un’orchestra dixie il mardi gras di New Orleans: uno spettacolo. Il secondo è quasi immobile, un fermo immagine nel suo carnevale. Non soggioga chi legge, gli lascia autonomia di sentire: una scena da ridere commuove riletta, e viceversa. Troppo bravo perché gli si resista, troppo onesto perché gli basti sedurre, Busi paga a gran prezzo la libertà che regala. Farne buon uso comporta diventare arguti e fieri come la sua foglia di platano: niente di meno, e non è cosa da poco; ma è il tributo migliore che i lettori gli possano rendere.
Daniele Giglioli