Furio Colombo, il Fatto Quotidiano 16/12/2012, 16 dicembre 2012
QUELLE SERE A CENA CON CAGE
[Nella Milano degli anni cinquanta, insieme con gli artisti che rivoluzionarono la musica] –
L’anno era il 1954, il luogo era la sede della Rai in corso Sempione 81, Milano. Il laboratorio di fonologia musicale era al secondo piano. Entrando non eri sicuro se si trattava di un laboratorio di analisi o di un centro per la misurazione dei terremoti. Comunque un bancone con strani apparecchi sul lato lungo della stanza e una consolle con riconoscibili attrezzature di mixaggio sul fondo. Qui, da questa stanzetta messa a disposizione del Maestro Luciano Berio da una Rai primitiva ma capace di intravedere il futuro, sono nate le prime opere speri-mentali di Berio (tra cui il suo, ora celebre, Omaggio a Joyce, scritto assieme a Umberto Eco).
MA ANCHE il modello di laboratorio di ricerca sulla nuova musica che poi si è realizzato (sempre con Berio e con Pierre Boulez) a Parigi, e che ha segnato la storia della musica nel mondo. Ma ha lasciato la sua traccia anche su un piccolo gruppo di persone giovani che per mesi ha passato le sere insieme, a Milano, intorno a Luciano Berio e a John Cage, e di cui ho avuto la fortuna di fare parte. Qualcuno ricorderà che John Cage era a Milano per partecipare a Lascia o Raddoppia?, la trasmissione di Mike Bongiorno. Il grande musicista che stava cambiando il rapporto con la musica, e la concezione stessa del silenzio e del suono, aveva bisogno di soldi. In seguito ha potuto dire che li ha trovati in Italia. Non da una fondazione o da un mecenate. Ma da un luogo non proprio di cultura come la trasmissione di Mike Bongiorno. Il fatto è che John Cage di funghi sapeva molto, ha vinto tutto, e Milano ha segnato il suo rilancio per la grande libertà di lavorare nel suo mondo di ricerca, invenzione, avanguardia. Volete sapere che tipo era John Cage? Più o meno come vi appare oggi uno di quei maghi del computer che sanno, toccano, cambiano, si muovono agili e veloci, ma senza alcuna pretesa di eccezionalità, anzi mostrando la persuasione che sia normale che tutto avvenga in pochi secondi e con precisione assoluta. Era simpatico, aveva humour, aveva una bella voce e – da musicista – si esprimeva in un buon italiano. In tempo reale pochi capivano, e quasi nessuno voleva così tanta in novazione. Noi, il gruppo intorno a Luciano Berio, dove arrivavano Bruno Maderna, a volte Pierre Boulez da Parigi o Henry Pusseur dal Belgio, o Stockhausen dalla Germania, e dove ogni esperimento diventava splendido nella voce di Cathy Berberian (allora moglie di Berio), andavamo a fare claque e sostegno alle performance di John Cage a Milano quando, nella stanza del concerto, il compositore apriva la finestra sul traffico, lasciava che il rumore scorresse, e si diffondesse per tutto l’ambiente.
POI LA CHIUDEVA all’improvviso per far ascoltare il silenzio, sbatteva una porta, sbatteva il coperchio sulla tastiera del pianoforte grande ed eseguiva su un pianoforte giocattolo (simile al celebre piano di Schroeder, il compagno di Charlie Brown nel fumetto di Schultz) un breve concerto inaspettatamente facile e cantabile in quella sequenza di rumori e silenzi che era la sua lezione di musica e di cui tutti coloro che vivono di suoni si dichiarano debitori, da Capossela a Stockhausen. Ma il pubblico no. Il pubblico, in tempo reale, vuoi che non fosse pronto o non fosse orientato (a volte si trattava di concerti in abbonamento) reagiva con disorientamento, proteste, persino con furore. John Cage era imperturbabile, rispondeva con un sorriso, inchinandosi come per un applauso. Maderna tendeva a litigare. Berio cercava di mettere pace; ma quante volte lui, quando dirigeva la sua musica, provocava reazioni di protesta in sala, specialmente ai suoi concerti pomeridiani al Teatro Nuovo, da una platea che non concepiva che una musica nuova potesse essere bella e, in questo caso, grande musica contemporanea. E allora bisognava andare in gruppo, portando anche le ragazze amiche, per tenere testa e applaudire il più forte possibile.
MA POI, CON John Cage, tutti a mangiare, o in un ristorantino con televisione sempre accesa dietro Corso Sempione, o al Santa Lucia dietro al San Fedele, o a casa di Berio, dove Cathy Berberian mostrava di essere non solo la grande cantante, ma anche la figlia esemplare di un ristoratore armeno con locale di successo a New York. Ma l’incontro con Cage, e Berio e tutte quelle sere passate all’inizio della vita giovane assieme ad alcuni allegri e attivissimi operatori di tutto il nuovo di un secolo (c’era il senso dello scrivere, ma anche quello del costruire, c’era la frequentazione con i Sanguineti, i Calvino, i Parise, ma anche i giovani Gregotti, e anche i nuovi designer impegnati a inventare oggetti mai visti per Olivetti, e intanto, tra coraggiose case editrici e nuovi quotidiani come Il Giorno, si cominciavano a sentire le voci di Arbasino, Giorgio Bocca, Bernardo Valli) ti dava l’impressione che non hai quasi mai: di essere proprio dove dovresti essere, il punto in cui comincia una storia. Non sarà stato vero ma, credetemi, non era male.