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 2012  dicembre 16 Domenica calendario

IL MONDADORI CHE RISCOPRI’ L’AMERICA

Conobbi davvero Leonardo Mondadori quando nei primi anni Ottanta andai a lavorare per lui, assunto da quello che era allora il suo braccio destro, Marco Polillo, gran nome del gotha mondadoriano. All’epoca la Mondadori, ed emblematicamente lo stesso Leonardo, avevano due anime, spesso in conflitto tra loro: la solidità del passato e l’ansia del presente. La certezza era l’eredità di Arnoldo, fatta di una marcata fisionomia lombardo-veneta e di tre parole: pubblico, autori e America. Il pubblico non andava né guidato né seguito, tantomeno vezzeggiato, ma preceduto. Di poco però, solo di qualche passo per carità! Seguendo questo precetto, la Mondadori da duramente conservatrice che era nei primi Sessanta — quando, cacciato Enzo Biagi, aveva intitolato su «Epoca»: «Presidente (si trattava di Gronchi ndr) pensaci tu» aggiungendo, per buona misura, un tricolore in compiega — si era trasformata in progressista nei Settanta, con il battagliero «Panorama» di Lamberto Sechi e soprattutto attraverso la fondazione, in società con Caracciolo e Scalfari, di «Repubblica». Sempre in omaggio a questa concezione arnoldesca, nei primissimi Ottanta Leonardo si era accorto che il pubblico, ancorché progressista, era ormai stufo di sangue e di misteri e, con grande scandalo dei benpensanti, si era messo a fornirgli libri allegrotti anche se di livello teoretico non eccelso, come si poteva evincere dai titoli: Vivere, amare, capirsi, O si domina o si è dominati, Bon Ton, Così parlò Bellavista. Per culminare con il famigerato libro di plastica e con l’epocale Come vivere, e bene, senza i comunisti di Roberto D’Agostino. Per venire agli autori, secondo precetto arnoldiano fatto proprio da Leonardo, l’importante era averli, non scoprirli, attività quest’ultima lodevole, ma non strettamente necessaria. Una volta accertata la statura, nessuna altra considerazione — politica, ideologica, culturale — doveva frapporsi tra il grande autore e la casa editrice che più di ogni altra poteva dirsi sua. Su questa via Leonardo riuscì nell’impresa che gli fu sempre più cara e cioè l’acquisizione di Gabriel García Márquez, un grande simbolo oltre che un grande autore.
Infine l’America. Quella che era stata per Arnoldo una sorta di divinità benefica (tramite il piano Marshall gli aveva rifatto gli impianti) divenne per Leonardo una patria ideale, la terra della libertà, della freschezza mentale, dell’apertura al nuovo. E al suo seguito tutta la Mondadori si americanizzò: Giorgio Bocca diceva sarcastico che il palazzone di Segrate era una astronave aliena dentro la quale ogni segretaria parlava inglese. All’epoca l’America non era molto popolare: la cultura dominante era francese, nessuno aveva dimenticato il Vietnam e regnava Ronald Reagan, non fatto per sedurre gli intellettuali. Solo Inge Feltrinelli aveva amicizie personali, tra gli americani liberal e radical. Solo Tiziano Barbieri, l’editore di Sperling & Kupfer, aveva amicizie personali, tra gli americani conservatori. Leonardo, e i mondadoriani al seguito, presero a frequentarli tutti, liberal e conservatori, recandosi a New York come i vescovi dell’Uganda si recano a Roma, alla Santa Sede. Cercando di mostrarsi diligenti e solerti. «He takes notes!», «Prende appunti!» esclamavano, allibite ma lusingate, le foreign rights americane dopo gli appuntamenti con Leonardo. Non si capacitavano che l’erede di una delle più grandi dinastie editoriali al mondo si mostrasse laborioso e umile.
L’eredità di Arnoldo, così calda e rassicurante, così ricca anche affettivamente, era però solo una faccia della medaglia. L’altra era ben diversa, per la Mondadori ma soprattutto per Leonardo. Era la turbolenta pressione del presente, un orizzonte incerto e agitato, la sensazione di trovarsi avvolti in dilemmi insolubili. Su tutti i lati su tutti i fronti. Da quello della propria collocazione ideale e poi politica, a quello delle scelte e delle adesioni più intime, che sfoceranno poi nella fede. Dall’incertezza sul destino imprenditoriale della famiglia all’ansia per il futuro dell’azienda, andata a infilarsi in un business, quello televisivo, per cui non aveva probabilmente né la stazza finanziaria né il gusto né, soprattutto, la cultura. Dalle lacerazioni affettive, gravi e amare, alla ricerca, spesso illusoria, di figure magistrali e paterne o di amicizie totali, senza riserve.
Nell’ultimo, tumultuoso, quindicennio della sua vita Leonardo dovette affrontare un cammino travagliato, fatto anche di delusione e di sofferenza. Commise errori, se ne pentì e ne commise altri, come può capitare a tutti e come capita a molti. A tre linee di condotta però non venne mai meno, probabilmente non per una deliberazione stoica, che non era il suo genere, ma perché gli veniva così, perché era fatto così. Innanzitutto non lamentarsi mai, non insaccarsi nelle proprie sofferenze e nei propri dolori. Accennarne sì, questo sì, ma come di cose ovviamente marginali e superate, passate. Poi mantenere sempre il gusto e il piacere, quasi puerile, quasi giocoso, per il nuovo e per le cose nuove. E in questo far consistere la generosità, come se il domani potesse giustificare l’oggi, le sue imperfezioni le sue manchevolezze. Per ultimo, ritenere l’editoria la cosa più profonda e bella esistente al mondo e la Mondadori l’incarnazione suprema dell’editoria.
Leonardo apparteneva — e qui misuriamo quanto è largo il fossato dei dieci anni che ci separano dalla sua morte — a un mondo editoriale ancora integro e compatto, dove c’erano libri e non contenuti, dove il marketing, che lui aveva introdotto in Italia, era il cane fedele dell’editoria, non il suo padrone. Dove accanto alla strumentalità, che va benissimo, accanto al consumo, che va ancor meglio, c’era però qualcosa d’altro. Che era opportuno non nominare, ma che esisteva e dava senso a tutto il resto. Leonardo, e questo è stato il suo tratto più bello, ha amato i libri di un amore infantile, totale, disperato. Lo sentii l’ultima volta al telefono una decina di giorni prima che morisse. Al pomeriggio c’era la discussione del budget dei libri e lui mi chiamò da casa la mattina. Quasi non riconoscevo la voce. Mi disse che si scusava, ma non poteva venire al budget perché aveva alcuni esami ed era un po’ stanco. Ma che quando tornava a Segrate gli sarebbe piaciuto se gli avessi fatto una presentazione sintetica, solo per lui. E che aveva sentito dire che in programma c’erano un paio di bei libri. Romanzi, naturalmente. Americani, naturalmente. Glieli potevo mandare?
Gian Arturo Ferrari