Alberto Paleari, Corriere della Sera 16/12/2012, 16 dicembre 2012
«Al mio migliore amico»: è la dedica scritta da Petr Il’ic Cajkovskij sulla partitura della sua «Quarta sinfonia», eseguita per la prima volta a Mosca il 22 febbraio 1878
«Al mio migliore amico»: è la dedica scritta da Petr Il’ic Cajkovskij sulla partitura della sua «Quarta sinfonia», eseguita per la prima volta a Mosca il 22 febbraio 1878. Il «migliore amico» in realtà era una distinta signora sulla quarantina, vedova di un ingegnere diventato ricco come imprenditore delle ferrovie, madre di undici figli avuti dal marito più un’altra fuori dal matrimonio. Di buona cultura e criticabile gusto nell’arredamento, amante del bel viaggiare e della musica, era spassionata ammiratrice di Cajkovskij, la cui arte, così gli scrisse, «rende la vita più facile e gradevole». Pronubo al loro contatto, avvenuto nel 1876 per lettera, fu un allievo del Maestro, un violinista assunto da Madame perché la accompagnasse mentre suonava il pianoforte. La vedova si chiamava Nadezhda von Meck e per Petr Il’ic costituì un «compagno» insostituibile e comprensivo con cui parlare della musica, della vita, della religione, dei dolori, delle ansie, dei suoi personali «fantasmi», quelli che lo perseguitavano da sempre, al punto che l’amata governante Fanny ancora piccolo lo aveva definito «bambino di vetro». Petr restò sempre fragile, timido, ipersensibile, timoroso del mondo, con una dolente intelligenza che non era in grado di sorreggerlo nel mare dell’esistenza — «il Fato», come lui lo avrebbe chiamato e che lo ossessionava — e con la consapevolezza dell’omosessualità. Ci furono periodi di depressione, altri in cui la creatività sembrava scomparsa, altri dominati dal bere. Il rapporto con Nadezhda durò quattordici anni, iniziato da lei con la richiesta di una fotografia, per finire, dopo migliaia lettere, nel 1890: improvvisamente, senza ragione. Non si incontrarono mai, se non una volta, ma per caso e senza scambiare parola. Alcune volte si videro da lontano. Lei quasi subito gli elargì un vitalizio, ma restarono fedeli al proposito iniziale espresso, in una lettera del 16 marzo 1877, anche da Cajkovskij, a complemento della considerazione che tra le cose che li univano c’era la misoginia: «Da tutto ciò lei può facilmente capire che non sono affatto sorpreso che, benché innamorata della mia musica, Lei non sia ansiosa di incontrare il suo creatore. Lei teme di non trovare in me quelle qualità ideali che mi sono attribuite dalla sua immaginazione. Lei ha certamente ragione. Sento che a una conoscenza più ravvicinata Lei non troverebbe una totale corrispondenza, una completa armonia, tra il musicista e l’uomo sognato». Da qui quel gioco a rimpiattino, quell’inseguirsi senza prendersi, sia in Patria sia all’estero, Italia compresa, che faceva sì che quando lui arrivava lei fosse già partita, che lei gli offrisse ospitalità in una delle sue dimore di campagna badando di non esserci. Neppure il legame di parentela instauratosi più tardi — una figlia di Nadezhda sposerà un nipote di Petr — imporrà una sia pur episodica tregua a questa manfrina. Si scrivevano parlando di musica: lui amava Mozart e non apprezzava Wagner, lui le inviava le sue creazioni ed entrambi indicavano la «Quarta sinfonia» come «la nostra». Lui la tenne puntualmente aggiornata sulla nascita del «Concerto per violino»: «Il primo movimento ora è pronto. Domani proseguirò con il secondo. Da quanto mi si è aperta la giusta ispirazione non ho più smesso». La misoginia, la timidezza, il «Fato» pesarono sull’animo di Cajkovskij, ma più pesante fu l’omosessualità. A quell’epoca in Russia l’omosessualità era punita dal codice: si poteva finire in Siberia. In realtà il codice non valeva per tutti: i nobili giravano l’Europa con il proprio codazzo di «amici», ostentavano le proprie preferenze sessuali, mentre lo Zar chiudeva un occhio. Petr frequentava quel mondo, veniva da una famiglia ricca e importante, ma non era di sangue blu, quindi soffriva l’esacerbante disagio di una condizione che socialmente si sentiva costretto a nascondere. Aveva due fratelli, tra loro gemelli, Anatoly e Modest, quest’ultimo anch’egli omosessuale, e una sorella che amava profondamente, Aleksandra detta Sasa. Di fronte alla realtà del suo essere, Cajkovskij cercò due volte una via di fuga, dopo avere respinto il sentimento che la sorella del cognato, Vera, mostrava per lui. Vi fu il rapporto con la cantante Désirée Artot, ma dopo alcune schermaglie la diva si unì con un altro. Il Fato però aveva in serbo il folle amore di un’allieva del Conservatorio, Antonina Miljukova. Il momento era propizio: il «compagno» di Petr, Vladimir Silovskij, si era sposato e il compositore era alle prese con lo snodo centrale del suo capolavoro «Eugenij Onegin», là dove Tatjana confessa per lettera il suo amore allo spregevole Onegin. Anche Antonina si era svelata per lettera. La coincidenza lo impressionò, e le rispose pure per lettera. Poi Cajkovskij incontrò la giovane e decise di sposarla, informandone anche Nadezhda, e mostrandole tutta la sua perplessità: «Vivere fino a 37 anni con innata antipatia per il matrimonio, poi trovarsi costretto dalle circostanze a un fidanzamento — e per di più senza provare la minima attrazione per la fidanzata — è una situazione veramente difficile». Però ammetteva che la ragazza era graziosa. Il 18 luglio 1877 Petr sposò Antonina, con l’approvazione di Anatoly e la disapprovazione di Modest. Partecipò alla cerimonia quasi in trance. Aveva accettato quel passo per il bene della famiglia. Alla von Meck scrisse: «Le ho di nuovo spiegato che, a parte un sentimento di gratitudine per il suo amore, per lei non provo nulla»; poi ammetteva di essere consapevole che la loro unione sarebbe finita in tragedia. L’unione durò tre mesi. Ci furono angoscia, tristi presentimenti, depressione, ripensamenti, desiderio di morte, rifugio nell’alcol e un tentativo di suicidio tra le acque della Moscova. Petr non solo non amava Antonina: la detestava e disprezzava i suoi parenti. Non riusciva più a lavorare perché la sua vita era spezzata. La abbandonò, aspettando a lungo il divorzio, mentre lei chiedeva soldi e diceva di avere messo al mondo tre figli. Impazzirà. Antonina tornerà più volte nella corrispondenza con la fedele Nadezhda. La moglie veniva definita da entrambi «quel certo personaggio», mentre Cajkovskij confessava «la mia salvezza la devo alla tua amicizia» e «ogni nota che sfocia dalla mia penna d’ora in poi sarà a te dedicata». Era «la nostra sinfonia» che stava prendendo forma. L’improvvisa e inaspettata fine arrivò nell’ottobre 1890: «Addio mio caro, incomparabile amico. Non dimenticare chi prova per te amore infinito». Il compositore restò «orfano» di un’anima verso la quale sentiva l’urgenza di aprirsi, di mostrarsi per quello che era o che riteneva di essere. Invecchiò visibilmente. Scrisse un ultimo capolavoro, la «Sesta sinfonia, Patetica». Poi morì. Ufficialmente per colera. Aveva 53 anni ed era il 6 novembre 1893.