Maria Laura Rodotà, la Lettura (Corriere della Sera) 16/12/2012, 16 dicembre 2012
CRAIG, IL BRITISH BRUTALE
«Odio sprecare un panorama». «Non credo nell’auto-promozione. Non devono seccarmi perché ne faccia». «Sì, mi tengono in piedi alcol, pasticche, e un patetico amor di Patria». «Vivo pensando sempre che la mia vita possa finire domani». «Tutti hanno bisogno di un hobby. Il mio è la resurrezione». «Ho cercato di uscire da questa storia dal momento in cui ne sono entrato. Ora vediamo come andrà. Ho un contratto, ma esiste gente che si pulisce il c. con i contratti». Dovendo indovinare quali battute vengono dette da James Bond secondo copione, e quali da Daniel Craig secondo il personaggio Daniel Craig, l’unica facile è l’ultima. I film di 007 devono essere venduti nell’intero pianeta, a un pubblico di tutte le età e tutte o quasi le sensibilità, perciò l’eroe non dice parolacce. Per il resto, attore e agente segreto paiono intercambiabili. E insomma, le battute dispari sono di James Bond in Skyfall, il film di 007 più visto e amato dai tempi di Sean Connery. Quelle pari sono di Craig. Che è un attore inglese, del genere inglese tozzo non aristocratico poco frequente a Oxford e molto tra le truppe in Afghanistan (dove Craig è stato in visita a novembre, ha fraternizzato coi soldati, ha provato armi e autoveicoli con generale soddisfazione). Che ora è molto patinato e sembra più un oligarca russo che un baronetto (è stato molto detto, e chi ha visto il film dopo ne è stato occultamente persuaso); e che però incarna meglio di ogni altro passato 007 (al netto di Connery, lasciateci ignorare gli altri) il Bond raccontato negli ultimi romanzi e racconti scritti (scritti, sono belli, non li leggeva più nessuno, ora li sta ripubblicando Adelphi) da Ian Fleming. Di mezza età, segnato e un po’ depresso, occasionalmente contento causa improvvise botte di adrenalina, meno interessato alle avventure sessuali che alla complessa solidarietà tra colleghi e agli accidentali conti col passato. Praticamente, uno di noi.
Come l’attore che lo interpreta, il primo 007 che sia una credibile icona generazionale per gli occidentali di mezza età. Pressati dai rottamatori («Perché vuole continuare? Questo è un gioco da giovani», si sente dire Bond in Skyfall), tartassati da capi anziani (la boss dei servizi segreti Judy Dench, in età da politico italiano). Così provati da finire col rivelare qualche ambiguità sessuale e seri deficit di accudimento (i duetti con e tra Dench e il cattivo Javier Bardem sono tutti su questo). Ancora in forma ma con dubbi e acciacchi. Pur essendo uno che (lo dicono tutti) emana brutalità sia pur britannicizzata, fisicità granitica, intensità sottotraccia, carisma. Il coetaneo/a medio/a può al massimo rivendicare un po’ di intensità sottotraccia. Ma Craig ci gioca, mette su facce da reduce, più che da un combattimento, da una sbronza. E quando lo intervistano esibisce con sincera astuzia (ma senza raccontare nulla) abitudini più sgangherate di quelle di Bond. Fa interessanti riflessioni sulla vita degli attori ai tempi dei social network: «Se parli con gente che lavora nei film ed è su piazza da quarant’anni, ti dirà che c’è una sola differenza. Una volta potevi sederti a un bar, ubriacarti, flirtare, qualunque cosa, e nessuno lo avrebbe saputo. Ora tutti fotografano tutto. E non puoi più vivere una vita normale. Anche a me tocca comportarmi come un uomo di classe. E dire che ho fatto tante cose, nella mia vita, che non posso più fare. Ed è triste, perché a me i bar piacciono». Anche a Bond, per carità. Però (a) l’aria da tosto inglese del popolo pluriarruolato ha reso credibile, in Skyfall, il product placement della birra Heineken (i fans elitisti ne hanno fatto una malattia; Craig ha fatto presente che senza i soldi della Heineken il film sarebbe stato più risparmioso e meno spettacolare; i soldi guadagnati da Craig con lo spot potrebbero consentirgli di abbandonare il personaggio, forse, lo aveva minacciato prima del successo di Skyfall, ora chissà). E (b) proprio come il Bond dei romanzi e di Skyfall, Craig è, di base e al netto di certe apparenze, un tipo molto autodisciplinato. Fin da piccolo.
È molto inglesemente nato a Chester, Cheshire, il 2 marzo 1968, da un ex sottufficiale dalla Marina mercantile diventato gestore di un pub e da un’insegnante di pittura. Ed è cresciuto, dopo il divorzio dei genitori, nella decaduta, non impeccabile, formativa Liverpool (è tuttora tifoso del Liverpool Football Club), da subito cercando di diventare attore. Ha studiato recitazione, incoraggiato dalla mamma Olivia, fin dalle elementari. È stato Oliver Twist nella recita di scuola, ha proseguito al Liverpool Everyman Theatre, ha visto il suo primo 007 (Vivi e lascia morire, con Roger Moore, vabbe’) nel 1973, insieme al papà. Ha giocato molto a rugby, e, che Dio lo benedica, ancora si vede. Dopo aver recitato da protagonista in Romeo e Giulietta e Cenerentola, ha lasciato le superiori a 16 anni, quando è stato ammesso al Nyt, il National Youth Theatre, ed è andato a Londra. E ha recitato molto Shakespeare (un autore che rende più intelligenti e anche più bravi, a vedere quanto sono bravi tanti attori inglesi di formazione classica), mantenendosi facendo lo sguattero e il cameriere nei ristoranti (il lavoro di sguattero renderebbe dickensiano il curriculum; ma Craig è un inglese molto poco dickensiano, che Dio lo ribenedica).
Dopo svariate bocciature all’ingresso, è entrato alla Guildhall School of Music and Drama, al Barbican (con Ewan McGregor e Joseph Fiennes, tra gli altri). Nei cinemetti londinesi ha scoperto i film di Robert Altman, che tuttora considera il suo regista preferito (e forse l’influenza dello straniamento altmaniano ha inibito a Craig tic e mossette da attore inglese bravino; per alcuni risulta monolitico, ad altri va bene così). Si è sposato giovane e per poco, con la collega scozzese Fiona Loudon, e nel 1992 ha fatto l’unica figlia, Elle, e il primo film, The Power of One. Poi ha recitato in varie serie televisive; poi nel 2001 in Lara Croft: Tomb Raider, distinguendosi come l’unico attore che conosceva e padroneggiava il videogioco omonimo; nel 2002 in Road to Perdition - Era mio padre di Sam Mendes, poi regista di Skyfall. Poi sono arrivati altri film, i primi premi per la recitazione; e la successione, nel 2005, a Pierce Brosnan nel ruolo di James Bond. Due primi 007, Casino Royale (2006) e Quantum of Solace (2008). Poi il secondo matrimonio, nel 2011, con l’attrice Rachel Weisz.
Nel 2012 è uscito Skyfall, preceduto e lanciato da un’irruzione di 007 Craig nell’ufficio della regina Elisabetta, in persona, che lui porta in salvo su un elicottero, nello spettacolo inaugurale dell’Olimpiade di Londra (miglior momento dello show; strepitosa performance della novantenne sovrana; ennesimo segnale dell’imprevisto complesso materno britannico e forse generazionale manifestato da Craig, Mendes, Bardem e altri; anche l’affiatamento tra luponi di Craig e Ralph Fiennes nell’epilogo a mamma morta dovrebbe far riflettere; ma ci sono icone generazionali peggiori, e meno energiche, soprattutto).
Maria Laura Rodotà