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Il fatto del giorno
di Giorgio Dell'Arti
«Oltre un milione di capi di abbigliamento recanti false etichettature ’made in Italy’ e 80 mila rotoli di tessuto irregolare, per un totale di 6.300 chilometri, sono stati sequestrati ieri dai militari della compagnia della guardia di finanza di Prato…» eccetera eccetera. Così ieri un dispaccio Ansa che riferisce anche di un imprenditore cinese quarantenne denunciato per aver venduto capi con “indicazioni fallaci”…
• Cioè scrivevano che un certo pantalone era, mettiamo, Versace e invece non era vero.
Sembra che la falsificazione riguardasse solo l’etichetta “made in Italy”, che da sola può far aumentare i prezzi di un pantalone o di una t-shirt. Le aziende colpite sono due. Una, nel Macrolotto 1, riceveva dall’estero capi d’abbigliamento finiti senza indicazioni di provenienza. I suoi operai mettevano l’etichetta e li facevano ripartire per i mercati di tutta Europa. I finanzieri hanno trovato in questa prima azienda parecchi chilometri di etichette pronte per la falsificazione, che andavano solo tagliate e appiccicate ai vestiti. Gli ottantamila rotoli irregolari erano custoditi nell’altra azienda, 2500 metri quadri al Macrolotto 2. L’irregolarità consisteva nel fatto che mancava ogni indicazione sulla composizione del tessuto. Secondo la Finanza si tratta di stoffe destinate per la maggior alla confezione nell’area fiorentina – quindi, direi, all’Osmannoro, anche se forse almeno una parte era destinata al mercato europeo.
• Beh, dei falsari qualunque. Perché la notizia è tanto importante?
A Prato dovrebbero esserci trentamila cinesi, quasi tutti clandestini, che lavorano in quattromila fabbriche. La città ha 180 mila abitanti, dunque l’incidenza della mano d’opera cinese sta oltre il 15 per cento. I cinesi in Italia, ineve, non oltrepassano il 6% della popolazione. Questo è un primo punto. Un secondo punto è che Prato, Milano e Napoli sono, nel nostro paese, le tre capitali del falso. Un terzo punto è che Prato vive la crisi del tessile, come gli altri distretti italiani, e di questa crisi i cinesi sono responsabili solo in parte. I cinesi però non sentono la crisi del tessile, o almeno non la sentono come noi perché hanno inventato un modello di business apparentemente invincibile. Producono a velocità supersonica, lavorando 7 giorni a settimana e 20 ore al giorno, per poi vendere sui mercati europei a prezzi mostruosi jeans a 5 euro, giacche a 10-12 e cappotti a 30.
• E non si possono fermare in qualche modo?
La cacciata dei cinesi da Prato a questo punto sarebbe il colpo definitivo a quell’economia. Molti pratesi hanno il loro ammortizzatore nel capannone che hanno affittato ai cinesi quando sono stati costretti, dalla crisi e dagli stessi cinesi, a mollare l’attività. I cinesi, da inquilini o da compratori, sono ottimi clienti, non badano ai prezzi e pagano sull’unghia. La novità è che l’anno scorso ha vinto le elezioni un giunta di centro-destra in una città che il centro-sinistra governava da 62 anni. L’operazione di ieri va perciò inquadrata nell’azione complessiva che sta facendo questa giunta da quando s’è insediata. Il sindaco Cenni – un imprenditore del tessile che è riuscito a non chiudere la sua impresa –, ha cominciato a far la guerra ai cinesi non per mandarli via, ma per costringerli a venire a patti. A Prato c’è ormai una ricca borghesia cinese e ci sono i cinesi di seconda generazione, che sono di fatto degli italiani. Per mettere nell’angolo questi maestri dell’invisibilità, Cenni, che è stato fortemente sostenuto da Maroni, ha fatto sequestrare negli ultimi tre mesi 47 aziende. Trenta le ha colpite in un solo giorno, alla fine di gennaio: gli agenti hanno fatto irruzione nei capannoni del quadrilatero che attorno a via Pistoiese, addirittura con l’aiuto di un elicottero. Il tormento è cominciato l’anno scorso, col sequestro di quelle insegne che non avessero la scritta in italiano più grande di quella cinese, come da regolamento. Ancora ieri, mentre venivano chiuse le fabbriche di Macrolotto 1 e 2, si colpiva anche il ristorante International da 400 posti, aperto da poche settimane.
• Che cosa si propone il sindaco con queste azioni di forza?
Ogni giorno partono rimesse per la Cina da 500 mila euro. Cenni vuole che una parte di quei soldi resti qui. Vuole che le ditte si mettano in regola e che comprino i tessuti non in Cina, ma dalle aziende di Prato «e in cambio», come ha scritto Dario Di Vico «il sindaco imprenditore si sta impegnando a concludere un accordo con le catene della distribuzione per vendere il loro pronto-moda tosco-cinese in grandi quantità e a prezzi contenuti».
• Può riuscirci?
Se continua a colpire dure come ieri direi di sì. Anche se il console cinese parla, esagerando, di “italiani nazisti”. [Giorgio Dell’Arti, Gazzetta dello Sport 19/3/2010]
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