MAURIZIO MOLINARI, La Stampa 19/3/2010, pagina 11, 19 marzo 2010
SANITA’ AMERICANA (2
pezzi) -
La riforma della Sanità non è ancora diventata legge federale ma la rivolta degli Stati per neutralizzarla è già iniziata. Sono 38 su 50 gli Stati dove governatori, deputati, politici locali, senatori, associazioni di categoria e gruppi di cittadini si stanno mobilitando attorno alla «Health Care Freedom Act», una proposta di legge destinata a tutelare i residenti dall’«obbligo di avere un’assicurazione sanitaria» previsto dalla riforma promossa da Barack Obama. La legge in questione prevede il diritto dei singoli di «fare causa al governo per tutelare la propria libertà di non avere un’assicurazione sanitaria».
Il primo Stato a tagliare il traguardo della promulgazione dell’«Health Care Freedom Act» è la roccaforte repubblicana dell’Idaho, dove il governatore Butch Otter ha apposto la firma durante una solenne cerimonia che lo ha visto sfidare il presidente con queste parole pronunciare in diretta tv: «Quelli che risiedono nella Torre d’avorio vi diranno che questo atto non conta nulla ma io vi dico che c’è una massa critica di Stati d’accordo con noi, e che tutti assieme sommiamo un peso di valore costituzionale». Otter ha bruciato sul tempo i governatori di Virginia e Missouri, due Stati dove la promulgazione è imminente perché i rispettivi Congressi hanno già approvato un’analoga legge. E in questi casi la preoccupazione della Casa Bianca è maggiore, perché nelle presidenziali 2008 i democratici riuscirono a espugnare la Virginia e persero il Missouri solo per un pugno di voti.
La mobilitazione delle Assemblee legislative ha un forte impatto su Washington perché mette in rilievo l’umore popolare contro la riforma, testimoniato dai sondaggi, secondo cui i contrari sono oltre il 53% (indagine Rasmussen) mentre la popolarità di Obama è, secondo l’ultimo rilevamento Gallup, scesa al 46%, 22 punti in meno del giorno dell’inaugurazione. Basta guardare la mappa degli Stati Uniti per farsi un’idea delle dimensioni della protesta: in Tennessee, Oklahoma e Arizona una delle due Camere ha già approvato la legge; in 28 Stati a maggioranza democratica o repubblicana - dalla Florida all’Ohio, dal New Hampshire al Wyoming, dal New Jersey al Michigan - deputati e senatori la stanno discutendo in aula; in Montana, North Carolina, Rhode Island e Utah il processo legislativo sta cominciando in questi giorni, nel Colorado è in atto un’iniziativa popolare per promuovere un referendum a favore dell’«Health Care Freedom Act».
Secondo Christie Herrera, la direttrice della task force sulla Sanità dell’«American Legislative Exchange Council» di Washington, l’imposizione dell’«obbligo di assicurarsi» è una «violazione da parte del governo delle libertà individuali» nonché del 10° emendamento della Costituzione che tutela i «diritti degli Stati». Fra gli esperti di diritto costituzionale serpeggiano tuttavia dubbi sulla legalità di tali provvedimenti. «La possibilità che uno Stato faccia causa al governo per tutelare i propri cittadini pone numerosi ostacoli legali» osserva David Freeman Engstrom, giurista della Scuola di Legge dell’Università di Stanford ma con all’orizzonte le elezioni di novembre per il rinnovo del Congresso ciò che conta sono gli aspetti politici dello scontro. «Come Stati siamo sovrani e il governo deve ricordarselo» afferma Raul Labrador, deputato repubblicano dell’Idaho, erigendosi a paladino del federalismo.
Un altro fronte di rivolta che la Casa Bianca deve tenere d’occhio è quello che si sta manifestando nello Stato di Washington, dove il colosso delle farmacie Walgreens ha fatto sapere che dal 16 aprile non accetterà più ricette di nuovi pazienti perché «è diventato un business che fa perdere danaro a causa della continua diminuzione dei rimborsi» da parte del programma di assistenza pubblica Medicaid, uno dei tasselli della riforma sanitaria.
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Barack Obama rinvia il viaggio in Asia per lavorare a un voto della Camera sulla riforma della Sanità che teme di perdere.
La svolta del Presidente matura nella mattinata di ieri in un’atmosfera che alcune fonti definiscono «drammatica». La prima notizia che gli arriva è positiva perché l’ufficio del Bilancio definisce i dettagli economici della riforma: nell’arco di 10 anni costi per 940 miliardi e riduzione del deficit di 138 miliardi, con altri 1,2 trilioni di risparmi nella prossima decade. un quadro solido. Ma poi arriva nello Studio Ovale l’aggiornamento della conta dei voti favorevoli: su 255 deputati democratici ad assicurare il sostegno sono appena 211 ovvero 5 in meno della maggioranza di 216 necessaria per l’approvazione.
A 72 ore dal voto significa che può succedere di tutto. Obama non ha altra scelta che chiamare i presidenti di Indonesia e Australia e fargli sapere che la visita già rinviata deve essere rimandata a «una data più in avanti», forse giugno nel caso di Giakarta. «Le alleanze internazionali sono importanti ma la Sanità ha un valore straordinario per il presidente», dice il portavoce Robert Gibbs ai reporter nel Giardino delle Rose. Rinviare un viaggio all’estero all’ultim’ora è un fatto insolito per la Casa Bianca. A dare una spiegazione di quanto avviene è Dennis Kucinich, il deputato liberal dell’Ohio che Obama ha conquistato al fronte del sì portandolo sull’Air Force One, quando dice: «Ero contrario ma sono favorevole perché se la riforma verrà bocciata la presidenza sarà molto indebolita». La gaffe di Kucinich svela ciò che Obama gli ha detto a porte chiuse: teme che una sconfitta lo trasformi in un’«anatra zoppa» con qualche anno d’anticipo.
La difficoltà nel raggiungere il quorum di 216 voti sta nella sovrapposizione fra tre gruppi di democratici che si oppongono: una dozzina di agguerriti antiabortisti guidati da Bart Stupak, deputato del Michigan, sostenuti dalla Conferenza episcopale Usa contraria all’elargizione di fondi pubblici all’interruzione di gravidanza; 49 eletti in Stati conservatori dove temono di essere sconfitti nelle urne quando a novembre si voterà per il rinnovo del Congresso; i «Blue Dogs», pattuglia di moderati contrari all’aumento delle tasse. I repubblicani sentono che gli avversari sono in difficoltà e con John McCain incalzano, cercando nuovi adepti fra gli incerti: «Le prossime ore sono decisive».
Il maggiore problema di Nancy Pelosi, presidente della Camera e alleata di ferro di Obama, lo spiega il politologo Larry Sabato: «I deputati democratici hanno paura che votando a favore perderanno il seggio, visti i sondaggi sulla impopolarità della riforma». Da qui la soddisfazione di Pelosi per la scelta di Obama di rimanere in città: «Averlo qui sarà utile se servirà una parola o un incontro in più». La realtà è che l’agenda del Presidente fino a domenica prevede una raffica di colloqui e incontri per recuperare i 5 voti mancanti. Obama tradisce la tensione durante un’intervista a Fox tv nella Blue Room: al giornalista che lo incalza sui numeri e la procedura lui risponde parlando di principi. Finisce quasi in un battibecco. Ma non è tutto. Se il quorum sarà raggiunto e la Camera domenica approverà la storica riforma, Obama apporrà la firma subito dopo ma non sarà ancora finita perché la procedura della riconciliazione obbliga il Senato a esprimersi un’ultima volta, a maggioranza semplice.