Paolo Talamo, Il Messaggero 19/3/2010, 19 marzo 2010
DA MAZZINI A MELI IL RISORGIMENTO SPEZZATO
NELL’EPOCA in cui tutto si consuma in un attimo, come un panino, come un reality show, rileggere le origini più profonde di un Paese può dare le vertigini. come rivedere le scene di una gioventù collettiva che in qualche modo ci ha plasmati ma che non conosciamo. Si comprende da quali fonti sgorghi il nostro comune sentire; quanto di quel patrimonio si sia perso nei decenni; quanto non sia ancora, 150 anni dopo, né accettato né condiviso.
Due eventi culturali, apparentemente slegati, raccontano degli albori dell’Italia in modo antitetico. Il primo è il volume di Giovanni Belardelli, ”Mazzini”, commentato da Paolo Mieli sul Corriere della Sera. Il secondo è l’inaugurazione dell’anno accademico dell’Accademia di Storia dell’Arte Sanitaria, un’istituzione che ha quasi 90 anni e che ha voluto ripercorrere la vita, la personalità e gli ultimi giorni di Goffredo Mameli.
un Risorgimento dai due volti, non conciliabili. Per Belardelli più che un padre della patria Giuseppe Mazzini è il padre di molti suoi vizi; l’estremismo parolaio, la visione onirica staccata dalla realtà, il moralismo che prevale sui diritti individuali, la vocazione al martirio che poi è sempre quello degli altri: per l’esattezza, di coloro che si fidano di un ”fallito di genio” (Mazzini nella recensione del Corriere). Per gli studiosi dell’Accademia, tra cui spiccano i professori Gianni Iacovelli (presidente) e Giuseppe Monsagrati (relatore), il mazziniano Goffredo Mameli è il simbolo di ciò che il nostro Paese ha di più puro e prezioso: lo slancio verso un domani luminoso che vale l’impegno, il dolore, il sacrificio ed anche la stessa vita. Mameli, tanto noto quanto poco conosciuto, compose il canto che dopo il fascismo divenne l’inno nazionale. Ma soprattutto dedicò i 22 anni della sua intensissima vita a un’Italia che non c’era: non solo unita, ma soprattutto pervasa da valori come libertà, fraternità, onestà morale e intellettuale.
Com’è possibile dare letture così diverse del movimento fondante di un Paese? Sin dai libri di scuola abbiamo appreso di una liberazione nazionale conquistata dai garibaldini e dai repubblicani e poi politicamente gestita dai moderati piemontesi, ben impersonati da uomini come Cavour o l’ex mazziniano Crispi. Ma in questo caso emerge qualcosa di più: un Risorgimento ”spezzato”. Per il revisionismo promosso da storici del livello di Belardelli e Mieli, il grande vate genovese è in realtà un agitatore giacobino che ”viveva nella condizione visionaria e allucinata dell’emigrato politico, continuamente mescolando realtà e fantasia”. La morte di Mameli, di conseguenza, non è che uno straziante tributo al vaneggiamento di un demagogo, «destinatario, da parte di corrispondenti ed emissari, di esagerazioni che spesso lui stesso aveva contribuito a creare».
Nel convegno mameliano di Roma, invece, Goffredo è uno dei tanti giovani che a metà dell’Ottocento prepararono il terreno della libertà alle generazioni che sarebbero venute dopo; e per questo, come spesso capita agli anticipatori, pagarono con la vita. Nella ricostruzione di Monsagrati, Mameli è ”l’addetto stampa di Mazzini”, il ragazzo ”insieme dolce e coraggioso” che ”non sa star fermo” perché capisce che il suo non è più il tempo del silenzio e della passività. Anzi, dell’inerzia dei suoi concittadini il giovane Mameli si vergogna in modo aperto e costante. La Repubblica Romana del 1849, di cui Mazzini è capo e per cui Mameli muore, diventa così un ”laboratorio etico-politico” per la migliore Italia che verrà.
Nella vicenda di Mameli ci sono anticipazioni di temi vivi e moderni. C’è il conflitto fra padri e figli, generazioni divise non dalla pensione o dal posto fisso come oggi ma dalla diversità di orizzonti ideali: monarchici e legittimisti i primi, liberali e ansiosi di futuro i secondi. C’è poi il ruolo straordinario delle donne, formalmente sottomesse ma in realtà attive, creative, capaci di idee e comportamenti di valore storico. La migliore confidente di Goffredo è la madre Adelaide, che lo incoraggia e lo aiuta, e a cui il ragazzo scrive tutto ciò che gli accade, concludendo sempre con una richiesta: ”Amami”. E c’è il tema dell’amicizia vera, che non conosce limiti. Quando Mameli, colpito da una pallottola probabilmente non francese (un ”fuoco amico”ante-litteram), giace, mal curato, nell’ospedale SS. Trinità dei Pellegrini in via Arenula, Mazzini gli è costantemente vicino. Il giorno in cui apprende della prossima amputazione della gamba (che non basterà a salvargli la vita), gli scrive: «Non vi tormentate soverchiamente, che vi resta l’ingegno, vi resta il core... che gioverete sempre al Paese... e ch’io sarò, finché vivo, il miglior amico e fratello che possiate avere». E Garibaldi, anni dopo, così descrive alla madre Adelaide il giorno che suo figlio fu colpito, il 3 giugno 1849: «Mi ripassava accanto, trasportato, gravemente ferito ma radioso... brillante nel volto d’avere potuto spargere i sangue per il suo paese”. Poco più di un mese dopo Goffredo Mameli, la testa calda, colui che aveva scritto a Mazzini il famoso e concitato telegramma ”Roma. Repubblica. Venite”, colui che bramava di ”far la guerra senza dormire”, morì chiedendo del padre; quel padre che lo aveva sempre avversato ma a cui voleva chiedere scusa per qualcosa.
Mieli cita un articolo di Mazzini del 1866, in cui il rivoluzionario deluso «accusava i suoi compatrioti che avevano fatto l’unità, di esser rimasti «servi nell’anima, servi nell’intelletto e nelle abitudini, servi a ogni potere costituito, a ogni meschino calcolo d’egoismo, a ogni indegna paura...». Per l’ex direttore del Corriere è la prova ulteriore di una mentalità illiberale. «Poco importa se la maggioranza la pensa diversamente», dice Mieli, contrapponendo a Mazzini una pagina di Tocqueville.
Di fronte al Risorgimento spezzato, restano in piedi mille domande. Saranno certo tanti i limiti del mazzinianesimo. Ma qual era la maggioranza che allora «la pensava diversamente» su quell’unità senza Mezzogiorno, su quella classe politica così rapidamente opaca, su quella democrazia ancora monca e censitaria? Si potè davvero fare a meno, e davvero se ne può ora, di una visione in cui la politica coincide con il senso del dovere, con la missione, con l’onestà personale più profonda e inattaccabile?