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 2010  marzo 19 Venerdì calendario

IL DOPPIO VOLTO DELLA CINA

Il villaggio più povero della Cina non sembra essere in Cina. Naviga in un universo a parte, come tanti altri. Le seicento famiglie "dong" indossano i costumi degli antenati e gli uomini girano con la spada. Solo i più deboli mangiano la carne, che qui è di topo. A Zhaoxing pensano che Pechino forse non esiste. Prima di avvistare le sue casette di abete, collegate tra loro dai «ponti del vento e della pioggia», dalla capitale si devono affrontare due voli, cinque ore in auto, dieci su tre corriere e due a piedi. Vale la pena raggiungere la fine del sentiero perché qui si incontra la gente che non trova differenza tra la Cina imperiale, quella di Mao e quella dell´Expo di Shanghai. Gli adulti la sera si radunano attorno ad una vecchia radio per ascoltare novità lontane. I successi della nazione che sta conquistando il mondo non li hanno mai visti. Le promesse dei tecnocrati di oggi sono considerate favole meravigliose, come i piani comunisti cancellati trent´anni fa da Deng Xiaoping.
Zhaoxing dorme nel Sudovest, tra le montagne e le terrazze di riso del Guizhou, la regione più misera del Paese.
I maschi sono decrepiti o neonati perché gli altri, appena possono, montano su un asino bianco e spariscono nelle fabbriche del Guangdong, lungo il fiume delle Perle. Si vive con mezzo dollaro al giorno, la scuola è vuota e chi si ammala è finito. Quest´anno, a causa della siccità che dura da ottobre, va peggio. Cisterne d´acqua gialla, solcata da foglie marcite, vengono rovesciate una volta alla settimana in un pozzo secco. Le autorità sostengono che, dopo un paio di giorni di riposo, si può bere. Il capo villaggio, Xiong Jinlong, raccoglie ciuffi di capelli neri solo sulla parte superiore del capo rasato. Il suo problema è «farcela». la prima volta che questo senso di ansiosa precarietà avanza nella Cina più dispersa, saggia e paziente. Il Paese macina primati economici e domina la scena politica internazionale. L´inedita paura di «non farcela», il senso di un´energia modernizzatrice precocemente esaurita, domina però anche un´ora di aereo più a sud, nel cuore del capitalismo d´Oriente. Anche la cinesizzata Hong Kong, dopo tredici anni, non sembra ancora appartenere alla Cina. L´inconfessato desiderio di "hongkonghizzare" la nazione per conferirle un profilo occidentale, seppellendola di grattacieli, banche e centri commerciali, esibisce un´imprevista fragilità. La luce dei neon e del cristallo, non è un palazzo se non è ricoperto di luminosi specchi, infila nella nebbia calda della baia un´immagine di avanguardia hi-tech. Gli affari però restano i solidi affari di sempre. I venticinque miliardari della penisola più ricca del continente si stanno dividendo gli ultimi terreni edificabili nei "Nuovi Territori", a Pechino e Shanghai. Li Ka-Shing ha appena speso 670 milioni di dollari americani per tredici ettari, si muove su una Bentley e abita un loft da 47 milioni di euro. La vista sulle torri di Kowloon e sulle isole dei Nove Draghi forse anticipa il destino urbanistico del pianeta. Il padrone di casa però non beve il suo tè perché, curiosamente, ci tiene a dire che anche questa robusta Cina scricchiola. Non che i condannati di Zhaoxing, o di altre migliaia di villaggi seminati ovunque, lo interessino. Piuttosto, qualcuno gli ha detto che le baracche del Guizhou e il suo attico sul Victoria Peak sono le due facce dello stesso fallimento di successo.
«Comunismo e capitalismo - dice - prosperano se ignorano il popolo. Noi li abbiamo fusi, per imitare Russia e Stati Uniti. Entrambi i modelli sono esauriti e non sappiamo cosa inventare». Recita una lezione di cui dubita, ma «il non saper che fare» per non smettere di crescere è il nuovo incubo della doppia Cina. Un´invisibile Grande Muraglia divide le megalopoli della costa dalle campagne dell´interno, qualche migliaio di ricchi da un miliardo di poveri, chi nasce in una città da chi è figlio di un paese. Sono vent´anni che è così. La gente però adesso è spaventata da un´accelerazione senza precedenti, che rende incolmabile la distanza. Mai tante persone di livello così diverso hanno convissuto in un medesimo territorio. La doppia Cina si sta in realtà spaccando in tre.
Nella prima, 800 milioni di contadini e 200 milioni di migranti senza diritti tirano avanti con un reddito medio di 17 euro al mese. Nella seconda, 250 milioni di impiegati e piccoli imprenditori con qualche privilegio, contando su 2 mila euro all´anno, si concentrano nelle metropoli. Nella terza, 50 milioni di funzionari di partito, leader politici e 89 miliardari di famiglia si spartiscono risorse vertiginose in una decina di capoluoghi di contea. La Cina è oggi al secondo posto nel mondo sia per poveri, dietro l´India, che per ceto medio, dietro l´Europa, che per ricchi, dietro gli Usa. Entro cinque anni sarà prima in tutte le fasce e l´ennesimo record inizia a non sembrare più una consolazione. Non solo sarà il Paese con il numero più alto di poveri e di ricchi. Sarà l´unico che da vent´anni ha in realtà smesso di abbattere miseria e che negli ultimi dieci ha raddoppiato le fila degli esclusi. Il tenore di vita, per chi sta sotto, dal 1995 è raddoppiato. Per chi danza sulla cima si è moltiplicato per otto. La prima generazione a cui è stato concesso di sognare scopre che, prima di compiere la missione dei padri, sarà vecchia. il destino degli umani, ma la campana dei cinesi non suona perché 170 milioni di persone hanno passato i 65 anni e presidiano ormai i «nidi vuoti». La seconda economia del pianeta, a cui si aggrappa la necessità di pace del secolo, è scossa dall´incapacità di cambiare per interpretare il proprio ruolo nuovo. «Per la prima volta - dice Yan Chengzhong, direttore dell´Istituto di sviluppo economico dell´università Donghua - il mondo è guidato da una nazione che ha fuso autoritarismo politico e capitalismo economico. servito per crescere nel mondo partorito dalla fine della Guerra Fredda. Ma l´era globale chiede uno scatto di innovazione ideativa». Il presidente Hu Jintao e il premier Wen Jiabao tra due anni usciranno di scena. Si rendono conto che Zhaoxing e Hong Kong non sono la Cina, ma pure che la rappresentano, così impietosamente da rivelare l´anima spenta del suo potere e i limiti che l´affliggono. Il primo di essi, assieme alla legge sul figlio unico, è l´"hukou". il permesso di soggiorno inventato nel 1958 per garantire ai cittadini, ossia al proletariato, la supremazia sui contadini. un privilegio ereditario anche nella civiltà di Internet. I nipoti dei migranti, nati e cresciuti nelle metropoli, per lo Stato restano agricoltori. Non hanno mai visto una zappa. Ma la crescita cinese, motore di quella dell´Occidente, resta fondata su 200 milioni di schiavi, docili e privati anche del diritto di vivere dove possono, nella loro patria. Il guaio è che la seconda generazione, già ipotecata dallo Stato, preme. Wan Jilong allevava maiali nel Guangxi ed è finito a scavare carbone a Ordos, il Texas della Mongolia Interna. «Avevano promesso di riempirci le tasche - dice - ma se lo fanno riscoppia la rivoluzione. Non solo in Oriente: i soldi per i diritti cinesi non li mette nessuno». Tredici giornali, prima dell´Assemblea nazionale del popolo, hanno pubblicato un editoriale contro l´"hukou". Sul web è stato censurato e l´autore, vicedirettore dell´Economic Observer, licenziato. Tra Zhaozing e Hong Kong si apre poi un´immensa terra di nessuno. il deserto sociale dove si agitano 37 milioni di operai che dopo le ferie di inizio primavera non sono rientrati nelle fabbriche, venti milioni di "vedove del lavoro", 58 milioni di bambini che in città non potrebbero andare a scuola, 15 milioni di "petizionisti" eternamente in marcia su Pechino, un milione di neolaureati all´anno troppo costosi per essere assunti, accampati oltre le periferie in "tribù delle formiche". Aggrapparsi ai mali altrui per dimenticare i propri è un vizio triste, oltre che vano.
La vecchia Cina del capitalismo pubblico, imbattibile nel vendere prodotti ma incapace di produrre una nuova idea di sé e del mondo, rivela però di non essere meno esaurita dell´Europa e dell´America. una bruttissima notizia e Xie Jianshe, analista finanziario di Hong Kong trasferito a Shanghai per diventare finanziere, la spiega con semplicità. Il fatto è, sostiene, che la Cina resta comunista. L´esempio è quello della crisi. Per superarla, Pechino, tra gli applausi, ha messo sul piatto 586 miliardi pubblici. Ha finanziato strade e ferrovie, vecchie fabbriche e grattacieli. Anche i terreni sono pubblici, come le banche che concedono i prestiti. Per fare soldi e carriera i 45 milioni di funzionari locali hanno messo i lotti all´asta. Ad aggiudicarseli, assieme ad appalti e prestiti, i 75 milioni di iscritti al partito. Il 70% del prodigioso Pil cinese, fisso da dieci anni oltre il magico 8%, è impastato cioè di denaro che lo Stato versa a se stesso. «Ma così - dice Xie Jianshe - i consumi interni non possono effettivamente aumentare, i prezzi di terra e immobili devono continuare a salire, lo yuan non si può rivalutare. Urbanizzazione ed esportazioni sono le due gambe della Cina. La prima è finta, come la bolla immobiliare che le banche alimentano e controllano per ordine di partito. Le seconde riguardano merci a basso contenuto tecnologico, prodotte da stranieri per calmare l´inflazione all´estero». Molti milionari, a Hong Kong e a Shanghai, pensano che questa «doppia Cina divisa in tre resiste perché infondo è ancora necessaria». Sostiene l´Occidente e soprattutto si mantiene, grazie a milioni di cinesi terrorizzati dal non poter rimborsare i beni spinti ad acquistare senza avere i soldi. Non è poco, ma il consumato filo non si strappa ad una condizione: l´assenza di riforme. «Il ricatto della stabilità - tagliano - è l´assicurazione sulla vita dei leader nati sotto Mao Zedong e invecchiati senza capire Warren Buffet».
Mai come oggi avvertono però la precarietà di un «indispensabile Oriente-venditore» risolto in debito, contratto per acquistare i debiti indotti «nell´indispensabile Occidente-cliente». Per gli ex contadini dimenticati del Guizhou «l´intreccio di interessi» è semplicemente «il pigiama lavato della solita ingiustizia».
Sessantamila, in sei mesi, sono stati licenziati da industrie che hanno chiuso. Anche la Cina delle delocalizzazioni multinazionali, per la prima volta, inizia a delocalizzare. Guangdong, Fujian e Zhejiang, primo eldorado globale del Duemila, si spostano in Vietnam, Cambogia e Thailandia. «I nostri capi - dice Han Han, due milioni di romanzi venduti e blog da 300 mila visite al giorno - di fresco hanno solo le amanti. Faremo la fine di Giappone e Corea del Sud. Dieci anni e la Cina torna panda e tè verde». Un paradosso, irreale e infausto. Trasmette però il senso di un ingranaggio che è stato perfetto e che si inceppa nel momento in cui la macchina, finalmente lanciata, stava per raggiungere il traguardo. Non è proganda anti-cinese prendere atto con preoccupazione che qualcosa a Pechino non funziona come prima.
«Senza riforme - dice Xie Jianshe, rettore dell´università di Guangzhou - la transizione si riduce a restaurazione». Al momento dei saluti, le famiglie di Zhaoxing intonano l´ultimo successo diffuso dalla capitale: «Abbiamo caricato i vostri asini con sacchi d´oro». Il miliardario Li Ka-Shing confida che a Hong Kong passa la notte da solo, a cantare e a ballare Michael Jackson al karaoke. Nulla di nuovo. Ma è per questa esausta replica, che qui chiamano armonia, che le due vecchie Cine dominanti adesso sono inquiete e non sanno più se "ce la fanno".