Guido Olimpio, Corriere della Sera 19/03/2010 Guido Olimpio, Corriere della Sera 19/03/2010, 19 marzo 2010
2 articoli - L’AMERICA E L’INVASIONE DEI «NARCOS» - Non appena insediato alla Casa Bianca Barack Obama ha subito rivolto la propria attenzione alla sfida dei narcos messicani
2 articoli - L’AMERICA E L’INVASIONE DEI «NARCOS» - Non appena insediato alla Casa Bianca Barack Obama ha subito rivolto la propria attenzione alla sfida dei narcos messicani. Sembrava un nuovo inizio, poi però si sono imposte altre priorità. L’Iraq, l’Afghanistan, la grana sanitaria. Ma la questione Messico, con la sua cronaca di morte quotidiana, non è sparita. E sarebbe un errore pensare che sia un affare che riguarda solo chi vive a Sud del Rio Grande. La metastasi si è diffusa a Nord del fiume, negli Usa, diventando un pericoloso «fronte interno». Martedì, il segretario di Stato Hillary Clinton e quello della Difesa Robert Gates, seguiti da generali e capi dell’intelligence, saranno a Città del Messico per un inusuale consiglio di guerra con le autorità locali. L’amministrazione deve trovare una ricetta che mette insieme tre obiettivi: aiutare i messicani nella lotta alle gang, contrastare l’infiltrazione, ridurre la domanda di droghe negli Stati Uniti. Non senza ragione il presidente del Messico Felipe Calderon rammenta che è ilmercato americano a provocare l’ingordigia dei Cartelli, pronti a tutto pur di prendersi fette di mercato. E, infatti, la guerra si sviluppa lungo i tre corridoi che dal Messico si insinuano negli Stati Uniti. Il primo è a Ovest, con la porta Tijuana-San Diego. Il secondo taglia al centro, in Arizona (Nogales, Douglas). Il terzo a Est, nel Texas. Direttrici che si sovrappongono alle grandi arterie. Le usano le auto, le usano i narcos per creare basi e centri di distribuzione in oltre 200 città, le percorrono molti dei 4,6 milioni di camion che ogni anno passano il confine. Un dossier ufficiale segnala che il Cartello di Sinaloa è presente in 129 località, quello di Juarez in 44, il Golfo in 44 e la banda di Tijuana in «appena» 20. Sono queste organizzazioni rivali a far affluire stupefacenti di ogni tipo che soddisfano la richiesta di 30 milioni di cittadini statunitensi. In cambio ricavano tra gli 8 e i 24 miliardi di dollari ogni anno, più un fiume di armi per darsi battaglia. Loro portano la «roba» e ricevono contante che viene contrabbandato verso sud dagli spalloni. Le «colonie» messicane, in combutta con bande locali, esportano anche violenza. Il controllo di una piazza di distribuzione significa omicidi e sequestri. Un numero: a Phoenix (Arizona) in tre anni sono stati denunciati 3 mila rapimenti, gran parte legati ai narcos. A Laredo, Texas, impazzano invece i killer a pagamento, spesso minorenni. A El Paso, ancora Texas, dormono i sicari incaricati degli omicidi a Juarez. Devono solo attraversare il ponte che unisce le due città, praticamente attaccate. Prima George Bush e poi Obama hanno provato a reagire. Il loro intervento è ancorato – forse troppo – al Piano Merida. Un pacchetto di 1,4 miliardi di dollari che prevedeva training, invio di mezzi e tecnologia. Ma al dicembre 2009, gli Usa avevano messo a disposizione del vicino solo una minima parte degli aiuti promessi. Ritardi burocratici e le resistenze del Congresso hanno compromesso il programma. I politici locali invocano lo schieramento dell’esercito. E martedì il governatore del Texas, Rick Perry, ha varato un piano di contingenza con la mobilitazione dei Ranger e misure supplementari alla frontiera. Altri congressisti pretendono dai messicani trasparenza – troppi soldi vanno in mani sbagliate ”, lotta alla corruzione e stop alle violazioni dei diritti umani. A partire dal giugno 2009, sotto l’incalzare della violenza, l’amministrazione democratica ha fatto uno sforzo in più. Gli Stati Uniti hanno fornito materiale per le intercettazioni e qualche elicottero. stato lanciato un corso di addestramento rapido per investigatori a San Luis Potosí. Sono stati formati team misti. partito «Platform Mexico», un centro informatico in un bunker di 5 piani che collega i database dei due Paesi. Oltre 400 agenti della Border Patrol sono arrivati di rinforzo. Ufficiali messicani sono stati inseriti nel Northern Command (Colorado) e nella Task Force di Key West (Florida). La Dea ha lanciato l’«Operazione Bandiera nera» sul transito della droga, quindi ha mandato 128 agenti sulla frontiera con compiti specifici nel campo dell’intelligence. I messicani, dopo anni di indecisioni, hanno reso più facili le estradizioni: 258 arrestati sono stati rispediti negli Usa. Infine sono nati i team misti a El Paso e sono stati aperti «uffici» a Nogales ed Hermosillo. Ma si tratta delle classiche gocce perdute in un oceano. Per gli analisti militari è troppo poco. Il Messico aspetta ancora una ventina di elicotteri e mezza dozzina di aerei. Non arriveranno prima del 2011. E devono aumentare anche i velivoli senza pilota Usa, ma i tagli al budget rendono problematico l’incremento. Per lo stesso motivo – e perché non funzionava – è stata sospesa la costruzione della barriera invisibile, fatta di sensori, telecamere e altre diavolerie. Servirebbero una collaborazione più stretta ma i nodi politici e le diffidenze sono forti. Dopo l’uccisione di tre persone legate al Consolato di Ciudad Juarez, l’Fbi è intervenuta ma ambienti messicani hanno avvertito: si limitino a una assistenza tecnica. I commentatori si aggrappano a rapporti ufficiali che danno conto di come la corruzione non sia solo una prerogativa dello stato latino: dal 2003 sono stati arrestati 129 funzionari o poliziotti americani accusati di aver favorito i criminali. I gringos restano gringos. Lo spiegamento di forze – anche se incompleto – è criticato da quanti lo accostano alla militarizzazione del presidente Calderon. Affidarsi all’esercito non ha dato risultati – sostengono – è difficile piegare i banditi con i fucili. Neppure la presenza di 7 mila soldati a Ciudad Juarez ha ridotto gli omicidi. Forse sarebbe meglio – suggeriscono – legalizzare alcune droghe, come la marijuana. L’impressione è che Washington non sappia bene quale strada prendere. Le risorse sono limitate, non è possibile trasformare la frontiera in una cortina di ferro e, soprattutto, ogni soluzione non può che essere parziale. I protagonisti – Usa e Messico – sono troppo diversi. Una realtà fornisce droga e l’altra la consuma. Senza contare il tessuto sociale. Quello messicano sembra fatto apposta per favorire i cartelli. Quello americano è ideale per generare soldi e infiltrarsi. Il fronte interno della narco-guerra resterà aperto ancora a lungo. Guido Olimpio PIANTAGIONI DI MARIJUANA NEI PARCHI NAZIONALI - Inventiva, mobilità, organizzazione. I cartelli messicani, insieme ai loro «alleati» locali hanno diversificato le aree di operazione all’interno degli Usa. Dopo aver creato avamposti dei centri urbani, si sono spinti nelle campagne e nei parchi nazionali. Gli splendidi «polmoni verdi», visitati ogni anno da decine di migliaia di turisti, si sono trasformati in centri di produzione di marijuana. I banditi cercano un’area remota, seminano e quindi traggono i frutti. I servizi antidroga hanno scoperto le piantagioni in Colorado, Tennessee, California. Angoli di terra in parchi celebri come il Sequoia, il Point Reyes e il Golden Gate sono diventati i «giardini segreti» dei trafficanti messicani. Soltanto nel 2008 sono state scovate e distrutte 7,6 milioni di piante. Una cifra enorme ma che non ha scalfito la produzione. Un dato aiuta a capire. Nel 2009 le autorità hanno stanziato 3,3 milioni di dollari per favorire l’azione repressiva a Yosemite, Sequoia e Redwood. Può sembrare una somma importante. Ma non lo è visto che una coltivazione di taglia media può valere 36 milioni di dollari. Se il campo appartiene a una organizzazione può avere 70-80 mila piante, se invece è di un locale ne ha un centinaio. Dovendo operare «dietro le linee», i narcos hanno ampliato i rapporti con formazioni criminali statunitensi o miste. Nel Sudovest fanno affari con i razzisti della «Fratellanza ariana» e con i «Barrio Azteca», assai forti nelle prigioni e disposti a tutto. Nel sud della California operano la ben nota «Mafia mexicana» e la «Black guerrilla family». In assenza di bande ben strutturate gli emissari dei cartelli cercano accordi con gruppi più piccoli. Non è difficile trovare sponde. Tutti sanno che i messicani hanno risorse. Per la distribuzione i trafficanti ricorrono sempre più spesso alle normali spedizioni postali. Preparano un pacco con all’interno oggetti qualsiasi e vi nascondono la marijuana. Dal 2007 il sequestro di carichi illegali è aumentato del 400 per cento. E nel corso degli ultimi 12 mesi il 75 per cento delle confische è avvenuto in cittadine di confine in California, New Mexico, Arizona e Texas. In alternativa si affidano ai corrieri privati. Individuano delle abitazioni dove i proprietari rientrano solo alla sera e indicano ai complici quell’indirizzo come destinazione finale. Il fattorino arriva, deposita il plico all’esterno e riprende il suo giro. Entrano allora in scena i «ricevitori» che si impossessano della scatola piena di marijuana. L’unico rischio è quello che il pacco possa andare smarrito oppure finisca nel posto sbagliato. Ma avendo a disposizione grandi quantità di materia prima il danno per i criminali è contenuto. G.O.