Il fatto del giorno
di Giorgio Dell'Arti
Aggiungiamo, ai pericoli che incombono sul mondo, quello cinese: ieri la Borsa di Shanghai è precipitata un’altra volta del 7% (poi l’hanno chiusa) e quella di Hong Kong (Shenzen), che è stata lasciata andar giù, ha toccato il fondo di un meno 8,5%. Queste cadute hanno avuto effetti deprimenti su tutte le borse del mondo, anche se mentre scriviamo Wall Street sta lottando per non andar più sotto dell’1,5. Milano, che alla fine è riuscita a contenere la perdita in una flessione dell’1,14, a un certo punto aveva perso tutti i guadagni del 2015, cioè era tornata ai livelli di un anno fa.
• Abbiamo bisogno di capire: 1. Perché la Borsa cinese va giù; 2. Che conseguenze avrà questo sulle altre Borse e sulle economie, europea e italiana. L’andamento della Borsa e l’andamento dell’economia non sono la stessa cosa, vero?
No, ci possono essere Borse che vanno su mentre l’economia è incerta o va male - fenomeno che si è verificato negli ultimi due anni - e Borse che vanno male mentre l’economia si sta riprendendo, come potrebbe essere adesso, anche se il giudizio sull’economia che noi ci formiamo adesso si basa sui dati di novembre e si sa già che neanche l’economia, in gennaio, va in realtà benissimo. In ogni caso: il rialzo dei titoli di Borsa in controtendenza rispetto ai dati economici (fatturati e occupazione) è stato provocato dalla grande quantità di moneta circolante nel mondo. Il famoso “Quantitative Easing”, cioè gli Stati che stampano a tutta forza titoli del debito e le Banche centrali che glieli comprano, significa semplicemente che gli Stati creano moneta. E dove può andare a finire questa enorme massa di carta, prodotta negli ultimi anni da Usa, Europa e Giappone, se non in prodotti della finanza, dato che i beni materiali da comprare in giro sono alla fine limitati, mentre i pezzi di carta sono infiniti? In Borsa soprattutto. Quindi, mentre l’imprenditore cerca disperatamente, e inutilmente, di farsi prestare denaro da una banca per svilupparsi (economia), la stessa banca che gli nega i soldi specula invece su azioni e obbligazioni (finanza). Questo circuito viziosissimo si interrompe malamente quando uno degli attori in gioco entra in crisi. L’attore in gioco entrato in crisi è adesso Pechino. E sarà bene tenersi forte.
• Perché è entrato in crisi?
La crisi, in questo caso, riguarda prima di tutto l’economia reale. Dal 1978 a oggi (il 1978 è l’anno delle cosiddette “quattro modernizzazioni”) un quarto della popolazione cinese s’è spostata dai campi alle città. Si tratta di 300 milioni di persone, un flusso enorme. Per incoraggiarlo e per fronteggiarlo le autorità cinesi hanno costruito appartamenti per 5,6 miliardi di metri quadri. Per coprire i costi di questa attività edilizia, si sarebbero dovuti vendere gli appartamenti, mediamente, a centomila dollari l’uno. Senonché il contadino arrivato in città e cliente potenziale di quel patrimonio disponeva di un reddito di diecimila dollari annui. Risultato: enormi città vuote, indebitamento folle e, come al solito, corruzione dilagante e inefficienza, perché a capo delle varie imprese, tutte pubbliche, che hanno governato questo sviluppo forsennato sono stati messi parenti, amici e amici degli amici che, con le relative burocrazie, si sono messi in tasca tutto quello che sono riusciti ad arraffare. Quindi le quotazioni delle varie imprese cinesi sono del tutto irrealistiche e chi detiene quelle azioni appena può le vende. Solo che le autorità cinesi ti impediscono di vendere.
• Come sarebbe? In Borsa si compra e si vende...
Non in Cina. A luglio, quando ci fu il primo crollo, i capi di Pechino emanarono questa legge: chi deteneva il 5% almeno di una grande azienda non poteva vendere e doveva tenersi le azioni. Questo per sei mesi. I sei mesi scadevano oggi, quindi nelle ultime 48 ore chi ha potuto ha dato via tutto. Senonché se una Borsa cinese va giù per una quota superiore al 7% chiude. E così Shanghai, ieri, non ha potuto esprimere il suo terrore fino in fondo. Inoltre le autorità cinesi hanno emanato nuove disposizioni: per altri tre mesi i grandi azionisti (quelli che possiedono più del 5% di una società) non potranno vendere più dell’1% dei loro pacchetti e dovranno annunciarlo ai mercati con 15 giorni di anticipo. Questo sia sul mercato principale che su quello secondario.
• Non può funzionare.
Non può funzionare e a Pechino lo sanno benissimo. Solo che: i tassi d’interesse americani sono aumentati e aumenteranno ancora di più nel corso del 2016, il che ha determinato una fuga di capitali dalla Cina verso gli Stati Uniti. Il crollo di ieri è stato preceduto dall’annuncio che la moneta cinese - lo yuan - avrebbe svalutato ancora una volta. I mercati hanno interpretato la mossa come un segno di debolezza, di incertezza, di smarrimento. La Banca Mondiale sostiene che il loro Pil quest’anno non segnerà un +7% (che pareva già poco, per le loro dimensioni), ma solo un +6.7%. Il taglio delle importazioni, deciso con l’idea di stimolare la domanda interna, colpisce i paesi produttori di materie prime.
• Se i cinesi non importano più ci andiamo di mezzo anche noi.
Per ora sono colpiti soprattutto Brasile, Russia e Sudafrica, già in rallentamento per conto loro. E poi tutto l’Estremo Oriente. Se il petrolio è prossimo ai 30 dollari non è solo per la politica di sovraproduzione araba o per il ritorno sul mercato dell’Iran. C’è anche la Cina, appunto. Che non è più in grado di comprare come prima.
(leggi)