Il fatto del giorno
di Giorgio Dell'Arti
Una dichiarazione di Mario Monti, unita a una serie di notizie contrastanti (cioè di segno opposto), hanno provocato un gran dibattito tra noi in redazione, dibattito il cui succo è questo: siamo usciti, o siamo almeno prossimi a uscire, dalla crisi oppure no? La dichiarazione di Monti, resa al termine di un vertice Ue di cui daremo subito conto, è questa: «Sono soddisfatto perché erano due anni che ad un vertice Ue non ci si dedicava a temi diversi dalla crisi finanziaria. È un buon segno parlare di temi diversi dalla crisi finanziaria. Speriamo sia uscita un po’ di scena. Speriamo per sempre. Speriamo che ora ci si possa concentrare su temi come quello della crescita».
• Da tutto questo, qui in redazione, abbiamo dedotto che la crisi è finita o sta per finire.
Mi pare una conclusione affrettata. Monti adopera il verbo «speriamo». Anche Sarkozy ieri ha detto: «Abbiamo girato la pagina della crisi finanziaria. Ora le strategie sulla crescita devono completare quelle adottate sul risanamento dei bilanci pubblici, il governo Monti ha preso decisioni che hanno permesso di abbassare le tensioni sui mercati» eccetera. Ma queste dichiarazioni di Sarkozy sono perfettamente comprensibili: tra poche settimane si vota, e fa un gran gioco dire agli elettori, come sta facendo il presidente francese, che la crisi è risolta. Si tratta cioè di propaganda, e basta. La Merkel, per esempio (che dovrà affrontare le elezioni l’anno prossimo), è di parere completamente diverso: «La situazione resta molto fragile, non siamo ancora fuori dal tunnel, ci sono ancora molti passi da fare, è sbagliato dire che la situazione non è più allarmante. La situazione nell’Eurozona si è calmata anche grazie all’importante operazione Bce sulla liquidità, che ci consente di guadagnare tempo, ma non dobbiamo pensare che abbia mandato via tutti i problemi. Bisogna evitare che si trasformi in una bolla di liquidità».
• Di che sta parlando?
Del denaro all’1% messo a disposizione da Draghi l’altro giorno, e di cui le banche hanno approfittato alla grande, imbottendosi di soldi per 530 miliardi di euro (139 alle banche italiane). Hanno partecipato alla bevuta 800 istituti. A dicembre un’operazione analoga aveva immesso nelle casse delle banche 489 miliardi. Quindi, in definitiva, le banche sono piene di soldi e questo, almeno a breve, aiuta.
• Perché dice “a breve”?
Mi ricordo gli elogi a Greenspan quando, dopo l’11 settembre, dava via i soldi all’1 per cento, mossa che parve sul momento straordinaria e che poi si rivelò funesta, perché la crisi dei subprime cominciò proprio da questo denaro regalato. Draghi mi è simpatico e mi pare un grand’uomo, ma dirò che questa apertura dei cordoni della borsa è una grande idea non prima di una decina di anni. In ogni caso, la liquidità c’è e questo permette di prepararsi al default greco, che ancora ieri i mercati davano al 99%. Insomma, s’è soprattutto guadagnato tempo, a luglio sarà pronto un fondo da mille miliardi, Italia e Spagna avranno finito di mettere a posto i loro conti, o comunque saranno meno fragili di adesso, e quindi bene, questo è il lato delle buone notizie, che vanno completate con la firma del Patto fiscale apposta ieri da 25 paesi Ue, con l’eccezione di Gran Bretagna e Cechia. Cioè, siamo d’accordo che i pareggi di bilancio saranno messi in costituzione e che ci si bastonerà a vicenda in caso di finanza allegra. Però…
• Però…?
Però l’Istat ci dice che, relativamente all’Italia, la crescita rallenta, appena lo 0,4% nel 2011, e che a gennaio la disoccupazione è salita al 9,2%. Dunque che ce ne importa che il differenziale dei Btp a dieci anni sta per scendere sotto i 300 punti e che risulta migliore già da ieri (per pochi decimali) dei Bonos spagnoli?
• È proprio questo che crea confusione: da un lato i Btp vanno bene, dall’altro la disoccupazione sale…
C’è crisi e crisi: la crisi dei Btp, cioè i forti interessi che l’Italia ha dovuto pagare nei mesi precedenti, è tutta finanziaria, ci mette in difficoltà perché paralizza le banche, quindi strozza il credito e azzoppa una delle gambe su cui deve camminare lo sviluppo. Ma venirne fuori non ci fa ancora camminare: l’altra gamba è infatti l’economia reale, cioè i prodotti da fabbricare e vendere nel mondo. Mucchetti, in un magnifico editoriale sul “Corriere”, l’ha spiegato molto bene: da un lato c’è Facebook, che vale in Borsa 100 miliardi (?), ma impiega nel mondo appena 20 mila persone. Dall’altro c’è la Boeing, che magari vale la metà, ma dà lavoro a 160 mila uomini sparsi su tutto il pianeta. C’è una bella differenza, e non saremo veramente fuori dalla crisi fino a che non fabbricheremo un sufficiente numero di prodotti reali, roba che si tocca con mano e si vende. La finanza ci vuole, e la crisi finanziaria va risolta. Ma questa è condizione solo necessaria, non ancora sufficiente.
[Giorgio Dell’Arti, La Gazzetta dello Sport, 3 marzo 2012]