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 2025  aprile 23 Mercoledì calendario

Trump vuole far ripartire le fabbriche: ma il problema sono i lavoratori (americani), ecco perché

Quasi una rivincita del lavoro su tutto il resto, dal capitale alla tecnologia. Ed è sorprendente che il sindacato non ne faccia una campagna di comunicazione. Mai avremmo immaginato che, nell’era della superiorità (persino intellettuale) delle macchine, la vera risorsa scarsa fosse la persona umana, addirittura in qualche caso quella priva di competenze, da formare. Discutiamo sull’importanza strategica delle terre rare, ma la rarità che dovrebbe angosciare di più le imprese è quella della manodopera, soprattutto specializzata.
Il tasso di disoccupazione
Un tempo le crisi economiche e finanziarie erano caratterizzate dal fantasma della disoccupazione che si accompagnava, nei periodi di recessione, alla febbre inflattiva. Oggi, estremo paradosso, il dramma è quello delle richieste aziendali che non trovano i corrispondenti profili professionali di cui hanno bisogno. Secondo l’ultima ricerca Excelsior di Unioncamere, il cosiddetto mismatch, cioè il divario tra domanda e offerta di lavoro, ha raggiunto in Italia il 47,8 per cento. Metà dei posti resta vuota. Ma se scendiamo nelle qualifiche, quella percentuale cresce a dismisura. Ad esempio, al 70 per cento per alcune mansioni nell’edilizia.
In Italia abbiamo una disoccupazione al 6,3 per cento. Ma negli Stati Uniti, dove l’amministrazione Trump ha come obiettivo il rimpatrio di alcune produzioni per riequilibrare la bilancia commerciale, il tasso di disoccupazione è di poco superiore al 4 per cento. Cioè nella condizione statistica che si può tranquillamente definire di «piena occupazione». La manodopera, in teoria, ci sarebbe ed è nell’immigrazione che però in America, e non solo, si vuole limitare con tanto di espulsioni di massa. Si chiamano, con una brutta traduzione dall’inglese, «deportazioni». Avvenivano anche con Obama e con Biden (forse in misura persino maggiore).

Il caso Apple
L’interrogativo che ci si pone è il seguente. Vale la pena di scatenare una «guerra dei dazi», che sconvolge i mercati finanziari e mette a repentaglio le relazioni tra Paesi, se poi alla fine il rimpatrio delle produzioni, cioè l’obiettivo finale dichiarato, ha come limite, attualmente insuperabile, la carenza di manodopera? I numerosi dietrofront sulle decisioni tariffarie dell’amministrazione Trump sono spiegati anche da questa banale considerazione che ci sorprende non sia stata fatta prima.
Tim Cook, chief executive officer di Apple, ha autorevolmente spiegato, con ricchezza di particolari, tutte le difficoltà che si incontrano nel cambiamento strutturale delle catene produttive.
Non è solo una questione di bassi salari e dell’impossibilità di proporli a candidati lavoratori in patria, ammesso che si riesca a trovarli. Dipende soprattutto dall’esistenza di un ecosistema di competenze concentrate in un luogo (si pensi all’iPhone city di Foxconn) formato da una fitta ramificazione di forniture dei vari componenti. L’offerta di ingegneri cinesi è incomparabile e non replicabile. Negli Stati Uniti, aggiungeva il capo di Apple, sarebbe addirittura impossibile riempire una stanza di ingegneri disponibili a una assunzione.

C’è poi una utensileria di precisione che sfrutta anche il dovere della perfezione, tipico della cultura orientale. Quasi un’ossessione per il dettaglio, per la finitura. E poi ci sono i tempi. Apple ha impiegato tre anni a trasferire dalla Cina all’India una parte significativa della propria produzione. Altro esempio: la fabbrica di semiconduttori di Tsmc in Arizona ha faticato non poco, subendo un ritardo di un anno, proprio per la difficoltà di avere personale specializzato.
I dati del Census Bureau, aggiornati al terzo trimestre del 2024, segnalano che il 20,6 per cento degli impianti produttivi degli Stati Uniti non riesce a raggiungere la piena capacità per mancanza di un’offerta di lavoro adeguata.
Competenze
Esemplare, in senso negativo, l’esperienza di Lvmh in Texas. Bernard Arnault decise, nel 2019, di produrre le celebri borse Louis Vuitton nello stabilimento Rochambeau Ranch di Alvarado. Venne inaugurato in pompa magna da Trump al suo primo mandato. Arnault, che era presente anche all’inauguration del gennaio scorso, voleva aggirare la minaccia dei dazi e usufruire delle generose esenzioni fiscali. L’obiettivo di arrivare a mille occupati è rimasto sulla carta. E non solo per la difficoltà di reperire manodopera ma anche e soprattutto per la scarsa produttività e la bassissima resa qualitativa che fecero dell’unità texana la peggiore in termini di performance dell’intero gruppo Lvmh. Troppi errori, troppi sprechi. Fino al 40 per cento di pelle pregiata buttata. Un autentico disastro industriale.
«Lo sviluppo della forza lavoro – è l’opinione di Claudio Soldà, direttore Public Affairs di Adecco Italia – richiede la combinazione di politiche dell’istruzione, della formazione e di gestione dell’immigrazione che si realizzano nel medio e nel lungo termine, in tempi non in linea con quelli richiesti dalle aziende nelle operazioni di reshoring». Soldà cita anche un rapporto di Lightcast, società leader al mondo nelle analisi sul mercato del lavoro, che prevede negli Stati Uniti una carenza di 6 milioni di lavoratori nei prossimi otto anni.
I dazi però hanno il consenso dei sindacati americani. E soprattutto del potentissimo sindacato dei lavoratori dell’auto, l’United automobile workers, tradizionalmente vicino ai democratici. Ha destato una certa sorpresa la dichiarazione di Shaw Fain, capo dell’Uaw, assolutamente favorevole alla politica tariffaria di Trump nonostante la feroce ondata di licenziamenti, soprattutto nella pubblica amministrazione.
Il luddismo rovesciato
«Sono parole che mi hanno lasciato molto perplesso – è l’opinione di Marco Bentivogli – e dimostrano che il protezionismo ha prima di tutto un effetto allucinogeno. Ci si illude, nonostante la storia dica il contrario, che basti una barriera tariffaria per ripristinare condizioni di lavoro che non torneranno più. Come se le fabbriche di un tempo si potessero riaprire da un giorno all’altro e i lavoratori, in cassa integrazione, fossero lì ad aspettare, senza peraltro invecchiare. Non è così. Durante la prima amministrazione Trump proprio gli stati della cosiddetta rust belt rimasero delusi, i posti perduti non furono ricreati o furono creati altrove. Si sottovaluta il peso della formazione che è essenziale ormai anche per mansioni modeste. E quello che io chiamo ingaggio cognitivo. Bisogna saper fare ma anche crederci. Non è solo questione di un salario adeguato. È anche passione per quello che si fa».
Uno dei gruppi italiani più presenti negli Stati Uniti è Sofidel, che produce carta igienica e per uso domestico. Il 50 per cento del fatturato è realizzato Oltreatlantico con ben dieci stabilimenti, dalla Florida allo stato di Washington. La materia prima, la cellulosa, arriva soprattutto da Canada e Messico. «La nostra principale difficoltà – spiega Simone Capuano, executive vice president di Sofidel – è quella di avere manodopera e soprattutto evitare un eccessivo turn over. Il mercato del lavoro americano è molto dinamico, si lascia un posto anche per una differenza di pochi centesimi all’ora. La stabilità qui non è un valore, anzi il contrario. Molti dei lavori più umili, come in Italia, sono poco appetibili per gli americani. In Florida e a Las Vegas abbiamo molti sudamericani, tutti regolari ma abbiamo notato che in qualche caso il visto è stato già ritirato».
Insomma, non è così facile, per mille ragioni, non ultime la lievitazione dei costi di un impianto, investire negli Stati Uniti. Ma l’ostacolo maggiore resta quello della scarsità dei lavoratori. In una curiosa inversione della storia del luddismo, dovrebbero essere le macchine, rese sempre più intelligenti, a «scioperare» per la mancanza delle persone che dovrebbero sostituire.